di Aldo Viganò.
Sono anni ormai (da Flags of Our Fathers a Changeling, da Invictus a J. Edgar, da Jersey Boys a American Sniper) che Clint Eastwood – l’ultimo regista classico di Hollywood – preferisce appoggiare la propria predilezione per un cinema di narrazione su personaggi e storie che appartengono alla cronaca più o meno recente, correndo il rischio di doversi castigare e costringersi a percorrere lo stretto sentiero che si apre davanti a chi si accinge a raccontare una “storia vera”, con protagonisti o eredi che (soprattutto negli Stati Uniti) possono sempre minacciare il ricorso ad agguerriti avvocati.
Ma chi glielo fa fare, viene da chiedersi? Risponderei, innanzitutto, che questa scelta nasce da un suo personale amore per la sfida: imporsi degli argini entro i quali incanalare la propria creatività. Ma c’è sicuramente anche dell’altro che ha molto a che fare con il mito. Soprattutto il mito americano, quello sempre caro al cinema hollywoodiano, che comporta lo scontro e il confronto non solo con la realtà quotidiana, ma anche con temi scomodi, quali eroismo e patriottismo, capacità di “farsi da soli” seguendo una vocazione personale, la resa dei conti con ciò che la società chiede e pretende dagli individui, oltre che con l’uso pubblico che vorrà fare delle tue scelte personali.
Temi scomodi, dicevo: tanto più perché Clint Eastwood, che (certo non per caso) di tutti i film biografici sopra citati non è mai anche interprete, li affronta di petto. in modo esplicito e diretto, portandoli sino in fondo, approfondendoli e complicandoli; senza mai aver paura che chi non sa vedere ciò che veramente accade sullo schermo possa tacciarlo di conservatorismo o di retorica. American Sniper enuncia con evidenza la predilezione di Eastwood a cogliere il mito nel quotidiano; a mettere in scena personaggi capaci di vivere sino in fondo le proprie scelte anche a costo dell’annientamento di se stessi; a confrontare melodrammaticamente l’avventura di esistenze individuali con l’uso che la politica e i mass media tendono poi a fare di loro.
American Sniper è un film che parla dell’America, con un protagonista texano (Chris Kyle) che, come vuole la tradizione famigliare e nazionale, ama i rodeo e la caccia, crede veramente che l’umanità si divida in lupi, pecore e cani da pastore e, proprio perché s’identifica con questi ultimi in base all’insegnamento paterno, sceglie nel 1998, dopo gli attentati alle ambasciate Usa in Africa, di entrare a far parte del corpo speciale dei Navy Seals dove viene notato per la sua eccezionale capacità di centrare il bersaglio e, pertanto, inviato come cecchino (“sniper”, appunto) in Iraq, dopo l’11 settembre. E lui accetta per dovere, nonostante a casa abbia una giovane moglie in attesa di un figlio.
Eastwood segue Chris al fronte e lo pedina con inquadrature sempre molto ravvicinate. A differenza di Kathryn Bigelow, che nell’ottimo The Hart Locker puntava soprattutto sulla guerra come droga e sull’adrenalina messa in circolo dall’adesione emotiva agli eventi di protagonisti e spettatori, Eastwood punta soprattutto sulla dimensione melodrammatica che in Chris Kyle nasce dal contrasto tra l’essere (l’umanità di colui che sta dietro all’arma mortale) e il dover essere (la propria totale identificazione con il fucile e il suo mirino di precisione), ma anche tra il soldato che uccide (tra gli altri, donne e bambini) e il marito che mentre punta il bersaglio usa il telefono satellitare per dire alla moglie che l’ama.
È sulla via di questo cinema complesso e fondamentalmente ambiguo, bisognoso di un pubblico senza pregiudizi, che Eastwood dà ancora una volta il meglio di sé, sortendo un film nel quale il processo di identificazione convive con quello di straniamento, l’assurdità della guerra passa interamente attraverso la complessità degli esseri umani e delle motivazioni personali che li spingono a farla. Cioè, proprio attraverso quel sapiente e consapevole uso che il “classico” Eastwood continua a fare, film dopo film, assumendosi consapevolmente anche il rischio di essere frainteso, ma continuando con tenacia a non rassegnarsi a un’idea di cinema didascalico o consolatorio, perché anche ciò che emerge da American Sniper è sempre la sua insistenza sul fatto che gli esseri umani sono comunque delle realtà complesse.
Realtà che è bello e interessante raccontare proprio come tali. Sia nella contraddittorietà del loro agire e delle loro scelte, sia nelle conseguenze ideologiche che da queste alcuni pretendono semplicisticamente trarre. Si vedano a proposito le sequenze finali da telegiornale, nelle quali gli spettatori più ottusi hanno voluto identificare il pensiero ideologico del regista, ignorando colpevolmente la profonda complessità dell’idea d’America sempre presente nel cinema di Eastwood. E che, non per caso, sequenze simili erano già state dialetticamente messe in scena da Eastwood a conclusione anche di film apparentemente molto diversi tra loro, ma sempre ben corrispondenti alla sua mai retorica visione del mondo, quali Mystic River o Flags of Our Fathers.
American Sniper
(id., USA, 2014)
regia: Clint Eastwood; soggetto: Chris Kyle, Scott McEwen, James Defelice; sceneggiatura: Jason Hall; fotografia: Tom Stern; scenografia: Charisse Cardenas e James J. Murakami; montaggio: Joel Cox e Gary D. Roach.
Interpreti: Bradley Cooper (Chris Kyle), Sienna Miller (Taya Renae Kyle), Luke Grimes (Marc Lee), Jake McDorman (“Bombarda”), Kyle Gallner (Winston), Sam Jaeger (cap. Martens), Keir O’Donnell (Jeff Kyle).
distribuzione: Warner Bros. Italia; durata: due ore e 12 minuti