TFF 2014 – Americana di David Carradine

Americanadi Renato Venturelli.
Il grande western dei primi anni settanta era “Piccolo grande uomo” o “Nessuna pietà per Ulzana”? E il grande poliziesco era l’allora celebrato “Klute” oppure “I nuovi centurioni” di Richard Fleischer, naturalmente bollato come fascista? La seconda parte della rassegna torinese sulla New Hollywood ripropone i consueti dubbi sulla tradizione storiografica vincente, quella che nella debordante ricchezza del cinema americano anni ’70 celebra un unico percorso all’insegna del “new”, delle tematiche alla moda e dei brand autoriali. Ma insinua anche qualche dubbio all’interno di uno schema consolidato, inserendo ad esempio nel programma, accanto a titoli più ovvii, anche un grande film ben poco “new” come “Organizzazione crimini” di John Flynn, di cui finalmente da qualche tempo cominciano ad accorgersi in parecchi (magari via Tarantino, cultore del Flynn di “Rolling Thunder”).

Tra tanti titoli che costituirono quarant’anni fa l’immagine più modaiola e new del cinema americano anni ’70, oscurando molte delle voci più forti e vive del periodo, anche in questa seconda puntata della retrospettiva Torino ha offerto così qualche piccola sorpresa, qualche segmento fuori quadro. Tra questi, uno dei più originali è senz’altro “Americana” di David Carradine, realizzato dall’attore nel momento in cui stava imponendosi con la serie tv “Kung-fu” e cercava di inserirsi in una vena produttiva alternativa rispetto a un’industria che temeva potesse fagocitarlo.  Era il periodo in cui realizzò anche “You and Me”, uscito in Italia come “California 436”, ma “Americana” ha avuto una storia molto più complicata, perché lo cominciò all’inizio degli anni ’70, poi lo interruppe, lo riprese in mano, lo presentò a Cannes nel 1981 e lo distribuì nelle sale solo nel 1983, cioè dieci anni dopo le riprese principali. E non è finita, perché “Americana” circola solo in una versione orrendamente scannata, e solo quella ha potuto proiettare anche il festival torinese.

Detto questo, però, il film ha una libertà, un tono e un’atmosfera che lo rendono accattivante al di là dei problemi molto concreti che lo affliggono. Carradine vi interpreta un reduce dal Vietnam che arriva in una cittadina del Kansas, parla pochissimo ma si mette in testa di riparare una vecchia giostra abbandonata in mezzo a un prato. Dorme all’aperto, fa due chiacchiere col benzinaio, viene perseguitato da un paio di bulli della zona, ha uno strano rapporto con una ragazza dei dintorni spesso ripresa in campo lungo (Barbara Herschey, all’epoca compagna di Carradine). Nell’ultima parte tutto si svolge in modo più precipitoso, con Carradine che viene costretto a combattere contro un cane e finisce per dover uccidere l’animale, ma poi ne mette la carcassa sulla giostra riparata, costringendo tutti a fare i conti con una cultura di insensata violenza.

Molti problemi dell’ultima parte sono anche legati alle diverse datazioni delle riprese, e il Carradine che va a ritirare la paga è ad esempio di dieci anni più vecchio rispetto a quello visto fino a quel momento. Ma anche se il film si allinea alle mode hippie dei primi anni ’70, con riprese in controluce, stravaganze gratuite, fotografia fintamente trasandata e tutto quello che faceva tanto post-Easy Rider, il film parte dalle sue ostentate ingenuità per creare un’atmosfera sospesa, al tempo stesso trasognata e concreta, dove una rarefazione quasi da gotico moderno si unisce alla presenza di autentiche persone del posto, e la stessa giostra sembra rimandare alle radici rurali di un’America da Grande Depressione. “Questo pavido allievo di Corman riesce ancora a fare del cinema e questo è già un non trascurabile evento, dato che anche nella cinematografia nordamericana non sempre ciò accade, per colpa di una concettualità, di un intellettualismo, di un culturalismo che si sono infiltrati tra le file dei nuovi autori” scriveva Turroni a proposito di Carradine regista, aggiungendo: “In Carradine l’invenzione è pretesto per fare del già espresso ma certi scatti, certe cadenze, certe distese nostalgie, hanno la meglio sulla maniera visiva e ritmica a cui ci hanno avvezzi negli ultimi tempi i più giovani scolari del cinema americano, tutti primi della classe e molti destinati a restar vuoti di vera sostanza”.

(Renato Venturelli)

 

Postato in 32° Torino Film Festival, Eventi, Festival.

I commenti sono chiusi.