di Antonella Pina
“Interstellar”: ultimo film di Christopher Nolan. Durata: 169 minuti. Genere: fantascienza. Una storia ambientata in un futuro non lontano dove la vita sulla terra sta esaurendosi, la sabbia ricopre ogni cosa, le piante non crescono più e l’unica coltura che tenacemente sopravvive è quella del mais: la specie homo sapiens è arrivata alla sua ultima generazione.
“Interstellar” è il viaggio di un gruppo di scienziati in un’altra galassia, alla ricerca di un pianeta da colonizzare. Nolan si è valso della collaborazione di Kip Thorne: professore di fisica teorica al California Institute of Technology, esperto di onde gravitazionali, buchi neri, wormhole e altro ancora. Si tratta quindi di un film fantastico basato su dati scientifici. Partendo dalle equazioni di Einstein, Nolan prende molto seriamente ciò che racconta: il buco nero in cui i suoi eroi riescono a entrare, chiamato “Gargantua”, e il wormhole, il cunicolo spazio temporale, che riescono ad attraversare. I buchi neri sono regioni dello spazio da cui nulla, né luce né materia, può sfuggire a causa dell’intensa forza di gravità. La superficie che li delimita ha un nome suggestivo: “orizzonte degli eventi”. Oltre questo orizzonte solo la fantascienza si può spingere. Il warmhole, il cunicolo del verme, è la strada presa dal verme per passare dall’altra parete della mela senza strisciare per metà della sua superfice, una scorciatoia quindi, un cunicolo spazio temporale per passare da un punto dell’universo a un altro ad una velocità superiore a quella che impiegherebbe la luce nell’attraversare la stessa distanza in assenza del warmhole. Questa sorta di scorciatoia è effettivamente possibile ma al momento soltanto ipotetica. Molti scienziati si sono sentiti in dovere di aprire un dibattito sulle tante inesattezze contenute nel film, probabilmente a causa della partecipazione di Thorne al progetto. I loro rilievi sono molto interessanti ma non sufficienti a fare di “Interstellar” un brutto film. Nolan voleva solo raccontare una storia verosimile e noi, fin dai tempi di “Fanny e Alexander” sappiamo che “ tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni “. “Interstellar” non ci è parso un film riuscito perché ostenta una profondità che non possiede; i personaggi sono improbabili e superficiali, perfino Matthew McConaughey – lo straordinario “Killer Joe” di Friedkin – ci sembra fuori posto, e quando Jessica Chastain scrive febbrilmente sulla lavagna la formula matematica che salverà la specie umana dalla distruzione, più che il lavoro di una scienziata, ricorda quello di uno spot pubblicitario. Nolan, passando attraverso buchi neri e warmhole, finisce con il concentrare le sue fatiche sull’amore. Così, dopo tante dotte definizioni scientifiche e ridondanti formule matematiche, ascoltiamo increduli la scienziata Anne Hathaway, uno dei membri dell’equipaggio, spiegare a Matthew McConaughey, il pilota dell’astronave, che occorre andare dove il cuore ci dice di andare perché “l’amore trascende il tempo e lo spazio”. L’amore è quindi una delle leggi che governano l’universo e, come la forza di gravità, trascende le quattro dimensioni spazio temporali. A questo punto tutta la competenza di Thorne ci appare superflua e le quasi tre ore trascorse per giungere a questa conclusione decisamente troppo lunghe: mentre l’astronave entrava nel buco nero, dove il tempo rallenta e nel suo centro, forse, si ferma, Nolan ci ha dimenticati sulla terra e, inevitabilmente, all’ uscita dalla sala ci siamo ritrovati un po’ invecchiati.
Tra le tante nozioni scientifiche apprese, una ci è parsa di particolare interesse: il mais, questa pianta che già nutriva i nativi americani, resisterà fino alla fine della vita sulla terra, nutrendo anche l’ultima generazione della specie umana. Il mais, altrimenti detto granoturco, formenton, sorc, meliga…. a seconda della regione in cui viene coltivato, è una pianta generosa: i chicchi sono grandi, facilmente raggiungibili, avvolti da un cartoccio che li protegge dai parassiti. “Che cosa incarna la generosità più di una pannocchia di mais? Il granoturco sembra proprio un dono della natura, è perfino impacchettato!”. Eppure, per dirlo con le parole di Standage, “un campo coltivato a mais, è una creazione umana quanto un microchip o un missile”. Il mais non potrebbe sopravvivere in natura senza l’intervento dell’uomo. Il suo progenitore è un cespuglio selvatico, il teosinte, proveniente dal Messico centro–meridionale, dal bacino del fiume Balsas, ha solo due file di chicchi e ciascuno di questi è avvolto da un involucro molto resistente. Tra il mais e il teosinte non ci sono molte somiglianze eppure, sono bastate poche, spontanee mutazioni genetiche sfavorevoli alla pianta ma vantaggiose per gli umani, a trasformare un cespuglio, che ancora oggi cresce spontaneo in Messico, nel mais. L’uomo divenne agricoltore nel 3500 a.C. in Centro e in Sud America, nell’8500 a.C. nel Vicino Oriente, prima di allora viveva una vita decisamente meno faticosa: era nomade, cacciatore e raccoglitore di frutti spontanei. Il protocontadino, selezionando le piante mutanti con nuove caratteristiche a lui più favorevoli, ne facilitò la propagazione. Iniziò così il processo detto di “domesticazione” che trasformò una pianta molto semplice in un mutante gigantesco dall’aspetto bizzarro non più in grado di sopravvivere in natura ma adatto a fornire cibo a molte civiltà. Il mais dipendeva dagli uomini e gli uomini dal mais, tanto che gli Inca la consideravano una pianta sacra. Arrivò in Europa con Colombo nel 1493 e si diffuse rapidamente nel bacino del Mediterraneo, nell’Europa centrale, lungo la costa occidentale dell’Africa e perfino in Cina. Oggi il mais è il cereale più prodotto a livello mondiale: 650 milioni di tonnellate. Viene utilizzato in molti prodotti destinati all’alimentazione umana ma soprattutto nell’industria dei mangimi e dei biocarburanti. Dalle spontanee mutazioni genetiche semplicemente favorite dall’uomo, si è passati nel corso dei secoli alla creazione di ibridi per migliorarne la resistenza e la produttività, fino ad arrivare, negli anni ’80, alle modifiche genetiche sul DNA. Oggi un chicco di mais può contenere un gene per la produzione di tossine ad azione insetticida, oppure un gene per la resistenza all’antibiotico ampicillina e altre mostruosità. Il dibattito attorno agli OGM è molto acceso. Ma non tutto è andato perduto. Molte varietà antiche di mais sono sopravvissute e oggi vengono coltivate in piccole realtà con straordinari risultati. Biancoperla, ottofile, rostrato, pignoletto, nostrano di Storo, nostrano dell’isola, ostenga del Canavese…..pannocchie bellissime, con una gamma di colori che va dal bianco al nero, passando per un arancio intenso e mille sfumature di giallo. La resa non è alta ma con la farina prodotta da queste varietà si preparano polente dal sapore particolarmente intenso. I maya che come gli Inca adoravano il mais, ne sarebbero contenti. Loro credevano che gli dei avessero usato le pannocchie per creare gli uomini: “Di mais giallo e di mais bianco fecero la carne degli uomini; con pasta di mais ne plasmarono braccia e gambe”……
Antonella Pina