di Aldo Viganò.
Ma che tipo di liceo hanno frequentato Martone e i suoi esegeti pubblicitari, per poter affermare che Il giovane favoloso racconta di un Giacomo Leopardi quale mai lo abbiamo conosciuto su i banchi di scuola? Chi ha fatto studi normali, anche se non “matti e disperatissimi”, ritrova invece sullo schermo proprio il Leopardi che già conosceva: non tanto il poeta o l’intellettuale del primo Ottocento, quanto l’uomo cui la natura fu “matrigna”; con la sua infantile gioia di vivere penalizzata dalla malattia che lo rese deforme, il suo bisogno di conoscenza del mondo vanamente frustrato da chi lo voleva imprigionare nel conservatorismo dell’erudizione, la sua sessualità repressa in una malinconia castrante e in un corpo infelice ma non necessariamente causa prima della mancanza di rapporti con l’altro sesso (per contrasto si pensi a Toulouse-Lautrec). Lo spettatore di tutte le età ritrova, cioè, nel bio-pic leopardiano di Martone proprio quello sforzo di far coincidere la biografia e la poesia, che soprattutto i mediocri insegnanti da sempre amano perseguire. Rigidamente strutturato in tre atti (Recanati, Firenze, Napoli), Il giovane favoloso è però un bio-pic che ambisce farsi riconoscere come opera d’autore: un film capace di coniugare nella poesia del cinema la vita e l’arte di un poeta da sempre amato dai giovani proprio per l’eterna attualità generazionale della sua visione del mondo. E di questa sua ambizione sono testimoni non solo la raffinata fotografia dello svizzero Renato Berta (curatore delle immagini di molti film francesi dei registi che avevano fatto la Nouvelle Vague), ma anche l’uso un po’ eccentrico e post-moderno della musica e una sceneggiatura che sposa il partito preso di mettere in bocca a Elio Germano solo le parole scritte da Giacomo Leopardi. Senza preoccuparsi affatto che proprio questo possa concorrere a banalizzare la poesia e il pensiero di Leopardi, che vengono così ridotti a espressione di una privata esistenza infelice, piuttosto che valorizzati quale universale espressione di un complesso e articolato divenire dall’erudizione al dialogo con il mondo, dal conservatorismo ecclesiastico alla scoperta della libertà intellettuale. Basti solo evidenziare come nel film tutti i componimenti poetici (dall’Infinito a La ginestra) sembrano sgorgare direttamente dall’ispirazione del momento, piuttosto che essere – come i manoscritti testimoniano – il sofferto risultato di un articolato lavoro sul linguaggio. Tutto Il giovane favoloso, del resto – sia nel suo contenuto narrativo, sia nella forma della sua messa in scena – tende a privilegiare la rappresentazione del corpo rispetto al movimento dei pensieri e delle emozioni, ostentando la volontà di poeticizzare il quotidiano: ora attraverso citazioni a effetto (la tirata sul dubbio di matrice cartesiana o l’invito di Leopardi – excusatio non petita – a non confondere la sua vita infelice con la sua ispirazione poetica) e ora tramite inquadrature sempre molto ricercate, finalizzate a sottolineare una condizione che appartiene alla gioventù di tutti i tempi, piuttosto che lasciare emergere da sola la forza emblematica di una vita freneticamente vissuta all’interno del proprio specifico tempo storico. Come già era accaduto in Noi credevamo, Martone consegna così allo schermo un film colto ed elegante, ma fondamentalmente senz’anima; un film abitato da tanti ottimi attori di teatro, ma guidati soprattutto a tratteggiare delle figurine che fanno da contorno alla vita di Leopardi, il quale è un Elio Germano che con la sua ostentata prova di bravura somiglia tanto a quegli attori hollywoodiani in cerca dell’Oscar per virtù mimetiche, anche al rischio di cadere nel ridicolo della pensosità al cinema o, come in questo caso (quando regista e costumista lo vestono con un nuovo verde cappotto) dell’involontaria parodia che assimila fisicamente Leopardi al grillo parlante di Walt Disney. A ben vedere, se la parte più interessante di Il giovane favoloso è quella che si svolge a Recanati, lo si deve soprattutto alla forte presenza di Massimo Popolizio che, nel ruolo di papà Monaldo, riesce a infondere una complessa realtà al personaggio di un colto e intelligente conservatore, il quale, pur amando sinceramente il suo figlio più disgraziato, non riesce però (per pregiudizio o per condizionamento sociale) trovare il modo di renderlo felice. Ma poi anche il lavoro sugli attori da parte di Martone tende a spegnersi: ora a causa della discontinuità d’ispirazione e ora per la scelta di non dare loro tempo e modo di far vivere sullo schermo con autenticità quei personaggi che affondano le loro radici in una Storia appena citata. A conti fatti, cioè, i pregi e i limiti di Il giovane favoloso finiscono con essere gli stessi di Noi credevamo, anche se sulla bilancia dei risultati pesano qui alquanto la povertà estetica e narrativa di alcuni passaggi decisamente irrisolti come quello del rapporto di Leopardi con gli accademici fiorentini, o la relazione con Fanny Targioni Tozzetti o, peggio ancora, la lunga scena felliniana del lupanare napoletano nel quale Antonio Ranieri spinge Leopardi, sperando invano di fargli perdere la verginità, ma riuscendo solo a precipitarlo nell’inferno della propria vergogna e della derisione altrui.
IL GIOVANE FAVOLOSO
(Italia, 2014)
Regia: Mario Martone – Sceneggiatura: Mario Martone e Ippolita Di Majo – Fotografia: Renato Berta – Musica: Sasha Ring – Scenografia: Giancarlo Muselli – Costumi: Ursula Patzak – Montaggio: Jacopo Quadri.
Interpreti: Elio Germano (Giacomo Leopardi), Davide Riondino (Antonio Ranieri), Massimo Popolizio (Monaldo Leopardi), Anna Mouglalis (Fanny Targioni Tozzetti), Valerio Binasco (Pietro Giordani), Paolo Graziosi (Carlo Antici), Iaia Forte (Donna Rosa), Sandro Lombardi (Don Vincenzo), Raffaella Giordano (Adelaide Antici Leopardi), Isabella Ragonese (Paolina Leopardi), Federica De Cola (Paolina Ranieri).
Distribuzione: 01 Distribution – Durata: due ore e 17 minuti.