di Juri Saitta.
Annunciato come il film-rivelazione della 71a Mostra del Cinema, Sivas dell’esordiente turco Kaan Mujdeci è stato uno dei lavori su cui si sono concentrate le maggiori attese e speranze dei critici presenti a Venezia.
Nonostante abbia vinto il Premio della Giuria, l’opera non si è dimostrata all’altezza delle aspettative, non perché mediocre o poco riuscita, ma in quanto si tratta di un classico prodotto medio con pregi e limiti non eccezionali.
Il film ha un soggetto semplice, che racconta la quotidianità di un ragazzino di undici anni che vive nell’Anatolia rurale. Quest’ultimo è innamorato non ricambiato di una compagna di scuola ed è inoltre invidioso di un coetaneo che farà il principe al posto suo in una recita scolastica. Dopo tali delusioni, il protagonista si affezionerà a un cane da combattimento che prenderà con sé per accudirlo e – sotto la spinta degli adulti – fargli fare altri incontri di lotta.
La regia di Mujdeci ha un’impronta sicuramente realista e quasi documentaria (basti pensare agli scontri tra i cani, così crudi che a qualcuno sono sembrati veri), la quale non punta tanto a narrare una storia forte, quanto a raccontare la formazione del ragazzino e a descrivere i paesaggi che lo circondano. Infatti, il personaggio (interpretato benissimo dal non professionista Cakir, il quale avrebbe meritato la Coppa Volpi o il premio “Marcello Mastroianni” come miglior attore emergente) viene costantemente seguito dalla telecamera che ne mostra e ne descrive tutta l’energia, la rabbia e la vitalità, mentre gli ambienti sono spesso inquadrati da una fotografia suggestiva che ne ritrae sia l’immensità sia l’isolamento.
E se la forza vitale del personaggio risulta evidente e ben rappresentata, il suo percorso di formazione viene invece restituito solo in parte, anche a causa di una struttura narrativa un po’ dispersiva che non riesce a prendere una direzione definita, soprattutto sul piano dei contenuti. Limiti che purtroppo non vengono giustificati o superati né da una particolare ricerca linguistica (anch’essa annunciata dal cineasta) né da una resa estetica più che eccelsa.
Si ha così l’impressione che questo esordio sia un’opera dalle ambizioni più volute che realizzate: il percorso di formazione è presente ma descritto in modo un po’ confuso, mentre la sperimentazione filmica sta più nelle dichiarazioni del regista che nella messa in scena, a meno che si voglia considerare come sperimentali la piccolezza del racconto, l’uso della macchina a meno che la rappresentazione schietta delle lotte canine.
Anche se il film ha suscitato reazioni forti tra grida di disapprovazione alla proiezione stampa e recensioni che rimarcavano la crudezza dei già citati combattimenti, probabilmente resteranno solo l’ottima interpretazione di un attore non professionista e la buona descrizione di un contesto caratterizzato da una cultura violenta (come dimostrano gli scontri tra cani) e da un paesaggio tanto suggestivo quanto abbandonato. Nulla di più, nulla di meno.
(di Juri Saitta)