Vincitore del Leone del Futuro per la migliore opera prima e del premio Orizzonti per il miglior film, Court del regista ventisettenne Chaitanya Tamhane conferma la vitalità della cinematografia indiana e dimostra quanto in essa siano presenti generi e stili differenti.
In questo caso, infatti, non ci troviamo di fronte né a un classico “musical” bollywoodiano né a un action/thriller alla Ugly, ma piuttosto a un lavoro “impegnato” che analizza con estremo rigore formale il sistema politico e giudiziario del Paese.
Il film racconta il processo al quale viene sottoposto un poeta che nei suoi testi critica severamente il governo e le istituzioni. L’uomo è accusato di aver istigato al suicidio un ragazzo attraverso una sua opera, ma le prove contro di lui sono così deboli da rendere palese l’imparziale persecuzione nei suoi confronti.
Fin dal soggetto iniziale Court mette in evidenza i propri intenti denunciatori, in quanto mostra l’arbitrarietà dei processi, la loro estenuante lentezza e, indirettamente, la limitata libertà di parola presente nella nazione.
Per comunicare tutto ciò, l’autore sceglie un linguaggio filmico molto sobrio e antiretorico, dove vigono una regia dalle inquadrature sempre fisse, una recitazione sottotono, un montaggio sfruttato con parsimonia e un’assenza completa di musica extradiegetica.
E se la distensione del ritmo può rappresentare la lunghezza dei procedimenti giudiziari, lo stile tendenzialmente freddo dimostra la volontà analitica del cineasta. Infatti, ci troviamo di fronte a un film “di testa”, nel quale ogni possibilità empatica viene annullata in favore di una messa in scena quasi documentaria che intende tenere lo spettatore alla “giusta distanza” per farlo ragionare criticamente su ciò che sta vedendo.
Al suo esordio Tamahne firma così un’opera sorprendentemente coerente sul piano linguistico e formale, ma che a tratti pecca di un’eccessiva prolissità, soprattutto a causa di alcune sequenze che si svolgono fuori dal tribunale.
Queste raccontano in primis la vita quotidiana dell’avvocato difensore, di quello dell’accusa e del giudice che gestisce il processo: il primo partecipa anche a iniziative politiche e sociali, mentre gli altri due si lasciano (quasi) completamente il lavoro alle spalle, pensando alle proprie faccende personali, dalla spesa alle vacanze.
Modi per mostrare la vita quotidiana in India? Momenti che sottolineano la sostanziale indifferenza degli ultimi due e l’attivismo del primo?
Sicuramente sono “episodi” che vogliono estendere lo sguardo sui singoli personaggi e, soprattutto, sul Paese in generale, indicando forse quanto la vicenda narrata sia anche un punto di partenza per riflettere in maniera più globale e generale sull’India contemporanea.
Nonostante le possibili motivazioni, tali sequenze non risultano pienamente “giustificate”, in quanto allungano un’opera che senza di esse avrebbe guadagnato in efficacia e incisività, anche perché in questo contesto la descrizione della quotidianità risulta un’aggiunta poco significativa, mentre la rappresentatività del soggetto raccontato sarebbe stata comunque palese ed evidente.
Court è dunque un lavoro imperfetto che a causa dell’ansia di voler trasmettere a tutti i costi messaggi profondi e complessi rischia di perdersi in una lunghezza non sempre necessaria, ma risulta comunque un esordio dalle idee nette e precise portate avanti con una coerenza non scontata.
I premi vinti a Venezia sono dunque discutibili, ma assolutamente giustificati.
(di Juri Saitta)