di Renato Venturelli.
Quarant’anni di cinema, oltre cento sceneggiature, film che vanno da Sapore di mare a Il pranzo della domenica, da Eccezzziunale… veramente alla serie Vacanze di Natale, da Yuppies a Le finte bionde…
Insieme al fratello Carlo, Enrico Vanzina è l’erede diretto di una tradizione della commedia italiana che affonda le sue radici nel cinema popolare degli anni ’50, uno degli ultimi rappresentanti di quello spirito del Marc’Aurelio che Scola ha raccontato nel suo ultimo film e che aveva il padre Steno tra i protagonisti. Un cinema dalla memoria antica, che comprende al suo interno anche un’idea di pubblico che forse oggi non esiste più.
Ospite del Genova Film Festival, Enrico Vanzina ci spiega innanzitutto come e perché i suoi film abbiano raccontato come forse nessun altro cos’è stata l’Italia berlusconiana, eppure proprio mentre parlano dell’Italia di oggi ci ricordano tanto le commedie italiane anni ’50, magari anche quelle cosiddette minori, di quartiere, zeppe di caratteristi…
“E’ una cosa innata: siamo nati dentro quel cinema lì, avevamo i modelli a portata di mano. Poi ci sono da dire due cose. La prima è che mentre scrivevamo una delle mie prime sceneggiature di successo, Febbre da cavallo, mio padre mi disse: facciamolo come fosse un film degli anni ’50. Mi accorsi che mi veniva molto bene, per cui da allora divenne un riferimento consapevole.
Ma c’è anche un altro motivo. Carlo e io apparteniamo a una generazione in cui i maggiori attori comici, da Verdone a Troisi, Nuti, Benigni, si sono messi a fare i registi di se stessi e così non li abbiamo potuti usare nei nostri film. Allora abbiamo fatto di necessità virtù, costruendo film di complesso, valorizzando molto i caratteristi, allargando i loro ruoli in storie di gruppo, e tutto questo comporta un mood anni ’50. Va anche detto che questi attori/autori come Verdone, che è mio grande amico da quando siamo ragazzini, hanno fatto molti bei film, ma hanno anche la colpa di aver distrutto un modo italiano di fare cinema. La forza della commedia italiana era di avere grandi attori ma anche grandi caratteristi, mentre loro hanno cominciato a fare film incentrati esclusivamente su se stessi. Noi allora abbiamo preso i comprimari e abbiamo dato loro maggior spazio: basti pensare a un caso come quello di Guido Nicheli”.
E l’attenzione al presente?
“Lo sguardo sul presente nasce quando, dopo un esordio un po’ da Blake Edwards all’amatriciana, ai tempi di Luna di miele in tre, abbiamo poi centrato tre grandi successi di fila: Eccezziunale veramente, Sapore di mare, Vacanze di Natale. Sapore di mare è stato fondamentale. Con mio fratello ci eravamo detti: perché non raccontiamo i nostri anni ’60, i personaggi che conoscevamo, le situazioni che abbiamo vissuto in prima persona? Abbiamo avuto successo e da allora abbiamo cercato di raccontare sempre le cose, l’ambiente e le persone che conoscevamo bene. Da lì è venuto anche Vacanze di Natale, dove abbiamo parlato della gente che frequentava Cortina. Ricordo una frase di Neil Simon in cui diceva di aver scritto solo di ambienti e persone che conosceva: e doveva trattare bene tutti i suoi personaggi, altrimenti la gente andava da lui e gli diceva guarda come mi hai trattato… Noi non abbiamo mai fatto sociologia, la nostra semmai è quasi una forma di verismo! Non analizziamo dall’alto la società, parliamo di quello che abbiamo intorno”.
Nei vostri film i personaggi vengono raccontati, mai giudicati…
“Su questo una piccola medaglia vogliamo mettercela sul petto. Vere commedie di costume in Italia ce ne sono poche, perché per lo più diventano ideologiche. In Italia c’è molto questa tendenza a voler giudicare, ad essere manichei. Ma la grandezza del cinema classico italiano è sempre stata quella di raccontare dall’interno i personaggi, anche i più schifosi, con i loro vizi: basti pensare al personaggio di Fabrizi in C’eravamo tanto amati di Scola, che pure era un regista politicamente schierato, ma ne fa un grande personaggio. Oppure pensiamo ai personaggi di Sordi, pieni di difetti, ma sempre trattati in modo affettuoso. Tutti i personaggi hanno una loro dignità, le loro ragioni. Poi è chiaro, la critica ci ha rimproverato a volte una certa superficialità, un eccesso di rapidità, ma se non hai grandi attori come Sordi, Manfredi, Tognazzi, Gassman, è più difficile caricare sulle spalle dei personaggi certa cattiveria, certa complessità. La forza dell’ultimo Sorrentino, ad esempio, è anche di avere un attore come Toni Servillo che dà una grandezza al suo personaggio”.
Oggi che qualunque esordiente sfoggia subito interminabili pianisequenza e stucchevoli esibizioni di stile, le vostre commedie hanno un linguaggio semplicissimo.
“Mio fratello Carlo è stato per anni aiuto di Monicelli nelle sue grandi commedie, io ho conosciuto bene Mario Camerini. Tutti e due dicevano, tre con mio padre: nella commedia, meno muovi la macchina da presa e meglio è. A voilte giriamo una scena con i due comici insieme, poi proviamo a spezzare coi primi piani per montarla, ma a funzionare meglio resta sempre quella in cui i due sono insieme. Carlo non gira un’inquadratura in più rispetto a quello che monterà. Va con idee chiarissime, sa esattamente cosa andrà sullo schermo. Quando scriviamo il film già pensiamo all’inquadratura, però poi la regia è compito suo, io non me ne occupo. Girando così, a volte è una fregatura, ti manca una copertura se qualcosa non funziona: però si gira in meno tempo, c’è più chiarezza… In altri generi, invece, come per La partita o Sotto il vestito niente, la regia è naturalmente molto più elaborata”.
Esiste anche uno spazio per l’improvvisazione?
“Improvvisazione pochissima. Certo a volte Proietti aggiunge qualcosa, anche Brignano, ma c’è un mito da sfatare. Mio padre era il regista di Totò, che improvvisava molto meno di quanto si pensi. Certo, mio padre cercava di non dare mai lo stop, perché magari Totò poteva sempre inventare qualcosa in coda. Ma in generale tutto era rigorosamente provato prima, Totò improvvisava poco. Noi leggiamo prima le sceneggiature con gli attori, come si faceva un tempo, e lì aggiungiamo, correggiamo. Poi però quando si gira si improvvisa pochissimo”.
Ricordo un racconto su Steno giovane alla Mostra di Venezia, e sulla sua insofferenza per il cinema da festival.
“Quando era ancora ragazzo, grande appassionato di cinema, mio padre riuscì ad andare con un amico a una delle prime Mostre di Venezia. Si intrufolarono con lo smoking, ma quando vide tutti quei film d’arte ebbe uno shock. Guardando le reazioni del pubblico, disse: voglio fare film divertenti, non film pomposi che annoiano la gente. D’altronde c’è chi si entusiasma per raffinatezze che sono solo apparenti, e che nessuno del mestiere considererebbe tali. Lattuada mi raccontò che una volta era a pranzo a Parigi con Langlois, il mitico fondatore della Cinemathèque. Langlois gli chiese di restare con lui a vedere un film di Cottafavi, che a Parigi veneravano. Lattuada gli chiese: quando c’è qualcosa che le piace molto, mi dia un colpo sul gomito! Langlois passò il tempo a dargli gomitate per cose incredibili, si entusiasmava per inquadrature sbilenche, fatte male… il grande, mitico Langlois…”.
E la questione della volgarità, di cui venite spesso accusati? Molti definiscono volgare quello che è semplicemente un tipo di comicità primaria. Oppure una certa dose di cosiddetta volgarità può essere funzionale alla commedia, un po’ come Tarantino sostiene che la violenza è in sé cinematografica?
“Truffaut e Hitchcock dicevano che il cinema è la vita da cui si tagliano i momenti noiosi. Comunque è la vita. La vita è così, non puoi far parlare la gente in modo diverso da come si esprime realmente. La volgarità è sgradevole quando è gratuita. Ma nei nostri film al 90% non lo è. La gente si riconosce in quei film perché sono veri. Certo, il politicamente scorretto, la provocazione, in una commedia sono poi fondamentali”.
Il pubblico sembra diventato più perbenista rispetto a qualche anno fa. Quanto è cambiato il pubblico in questi anni? I vostri film spesso sembrano velati da una sorta di malinconia, quella di immaginare di rivolgersi a un tipo di pubblico popolare che ormai sta scomparendo dalle sale.
“Il pubblico è cambiato tantissimo, innanzitutto perché ce n’è molto meno, e ci sono molto meno giovani. In certe sale, i film sono visti quasi esclusivamente da spettatori in là con gli anni. Il pubblico è cambiatissimo, altroché… Poi c’è quello che diceva Paolo Villaggio, che a proposito è uno dei miei legami più forti con Genova: con lui ho fatto un film carino, I no spik inglish, e poi uno dei film peggiori della mia carriera Banzai, che lo facemmo solo perché Villaggio voleva andare in Giappone a mangiare sushi. Ebbene, Villaggio diceva: quando faccio Fantozzi, tutti ridono perché pensano che i Fantozzi siano gli altri, i colleghi, i vicini di casa, non loro stessi. Forse adesso hanno capito che sono loro, e non fa più molto piacere…”.
Ma tra i vostri film quali sono i preferiti?
“Il cielo in una stanza, con Elio Germano, era un film malinconico, con una sua grazia e soprattutto un’idea forte: ebbe molti elogi ma non ebbe il successo che poteva avere. Una cosa che rimprovero a De Laurentiis è non averlo promosso bene all’estero, gli americani avrebbero potuto farne un remake perché dietro c’è una bella idea. Poi a me piace molto Tre colonne in cronaca: noi avevamo in realtà un’altra anima, siamo finiti a fare commedie, ma volevamo fare anche melodrammi, thriller, avventura in costume, insomma altri generi. Anche Il pranzo della domenica è un film con una vena malinconica forte. Credo del resto che se c’è qualcosa che lega molti nostri film è il tempo, abbiamo sempre fatto film sul tempo, giocando sul tempo, sui rapporti tra oggi e il passato, tra il cinema di adesso e quello di ieri”.
Siamo al Genova Film Festival: voi non avete mai girato un vostro film a Genova. Com’è il vostro rapporto con la città?
“A Genova ero venuto per un film che ho prodotto, Il vizio di vivere, sulla storia di Rossana Benzi, ma della città ho un ricordo alquanto strano. Rimanemmo tutti molto sorpresi perché c’erano Dino Risi, la Carol Alt di quegli anni, una storia importante, e non abbiamo mai avuto nessun contatto con i genovesi. Niente, nessuna telefonata, nessun assessore, zero. Non ci era mai successo da nessuna parte. Una freddezza che ci ha sorpresi: forse avevamo conosciuto davvero Genova! Poi ci sono stato molte altre volte, soprattutto per vedere le partite della Roma: allo stadio Ferraris ho visto vincere lo scudetto dell’83 e sono sceso anche in campo a festeggiare, ma anche tante sconfitte… Devo però dire che da bambino, insieme a mio fratello avevamo un autentico eroe dell’infanzia: Gilberto Govi. Quando in tv passavano le sue commedie non le perdevamo mai, eravamo pazzi di lui. E tra i genovesi voglio ricordare anche Pietro Germi, il migliore di tutti, fece film di tutti i generi, era grande sceneggiatore, grande regista, ottimo attore: ma era socialdemocratico, e così venne sempre considerato ai margini. All’epoca però i registi si frequentavano tutti, senza distinguere tra i tipi di film che facevano. Mio padre passava le serate indifferentemente con Fellini, Monicelli, Antonioni. Facevano tutti lo stesso mestiere, quello del regista, poi uno girava Guardie e ladri, un altro La dolce vita, un altro I soliti ignoti. Ora invece è stata creata questa distinzione tra un cinema cosiddetto commerciale, uno cosiddetto d’essai: una cosa assurda, all’epoca erano tutti registi, senza le barriere di oggi”.
(renato venturelli)