di Renato Venturelli.
La grande discussione di Cannes 2014 ha riguardato lui: Xavier Dolan, il ragazzo prodigio, il 25enne regista canadese che in Italia è ancora praticamente uno sconosciuto, ma che il festival di Cannes ha allevato e curato amorevolmente anno dopo anno.
Nel 2009 aveva esordito alla Quinzaine con “J’ai tué ma mère”, l’anno dopo era stato promosso al Certain Regard per “Les amours imaginaires”, nel 2012 aveva vinto la Queer Palm con “Laurence Anyways” (ancora al Certain Regard), l’anno scorso era riuscito ad andare anche alla Mostra di Venezia.
Insomma: è il giovane genio cresciuto a suon di festival, e consacrato quest’anno da quel discusso premio della giuria ex-aequo con Godard che dovrebbe significare se non un ideale passaggio di consegne (tra i due c’è ben poco in comune), almeno il tentativo di Jane Campion e dei suoi giurati di togliersi da ogni imbarazzo sistemando il grande vecchio e il giovane rampante con un piccolo coup de theatre tutto esteriore.
“Mommy” è in effetti il trionfo di un modo di intendere e fare cinema basato sulla continua invenzione, sull’esibizione dei temi personali più intimi, su un’esaltazione del gesto che è al tempo stesso una questione di corpo e di regia, di sangue e di linguaggio.
Dolan torna ancora una volta sul tormentone personale del rapporto tra un adolescente e sua madre, già al centro del suo film d’esordio. In questo caso c’è un ragazzo esuberante e incontrollabile, preda di improvvisi accessi di aggressività e di violenza, costretto a vivere con una madre single che cerca di evitargli un ricovero in ospedale psichiatrico dagli effetti potenzialmente devastanti. Il loro rapporto avrà un nuovo sviluppo quando cominciano a frequentare una bizzarra vicina di casa, che ha quasi perso l’uso della parola a causa dell’opprimente quotidianità familiare col marito, ma che sembra potersi liberare a contatto con la strana coppia di vicini di casa.
Lo slancio vitalistico di quel ménage à trois esplode ad un certo punto in uno di quei gesti estremi e teatralmente ad effetto che sembrano tanto piacere a Dolan: con il protagonista che al massimo dell’eccitazione afferra gli estremi dello schermo e lo allarga, fino a farlo diventare panoramico. Una trovata eclatante che provoca l’immediato applauso in sala degli spettatori e conferma la natura del cinema di Dolan: basato sulla sovreccitazione, sull’immediata visualizzazione delle emozioni, sull’estro platealmente esibito.
Di sicuro un autore che respira cinema ad ogni inquadratura, ma dove quello che conta è innanzitutto l’esibizione compiaciuta: smbra la nuova frontiera di un cinema irrefrenabile, ma lascia sempre il sospetto di un nuovo Lelouch o Ken Russell, dove l’eccitazione linguistica lascia il sospetto di un semplice gioco di superficie, ma dove c’è anche un lavoro sull’immagine, il racconto, la recitazione, che restano comunque sorprendenti in un autore venticinquenne.
(Renato Venturelli)