di Renato Venturelli.
I Dardenne continuano a scavare all’interno del loro cinema, cercando una sempre maggiore essenzialità e pulizia di linguaggio, prosciugando ogni immagine e ogni sequenza nel tentativo di eliminare qualunque vezzo o elemento superfluo. Paradossalmente, questo loro miglioramento interno sembra corrispondere a una progressiva perdita d’interesse nell’ambito dell’universo cinefilo: finché riprendevano i personaggi di nuca, esibendo lungaggini e compiacimenti di stile, venivano considerati una delle grandi novità del cinema mondiale, mentre adesso rischiano di scivolare ai margini dell’attenzione, confinati a una formula ormai prevedibile e consolidata.
“Due giorni, una notte” è in effetti un film molto costruito, forse anche un po’ astuto nella formula, ma dove non c’è una sola inquadratura di troppo e il racconto viene prosciugato nella sua essenzialità. A non essere perdonato è forse anche l’inserimento di una star come Marion Cotillard all’interno di un cinema che per sua natura sembra esigere maggior rigore penitenziale, ma in realtà la Cotillard è qui impeccabile per asciuttezza, intensità, mancanza di compiacimenti divistici: una grandissima prova su un registro sottotono, perfettamente inserita nella poetica del film, che molti avrebbero voluto vedere premiata.
Il suo personaggio è quello di una donna che sta per perdere il proprio lavoro in una piccola azienda. I colleghi, anzi, si sono già espressi nel primo ballottaggio dell’azienda, in cui dovevano scegliere se ricevere un bonus da mille euro, oppure rinunciarvi per evitare il licenziamento della compagna. Gli operai hanno preferito incassare il bonus, e la donna ha adesso un weekend a disposizione per andare a contattarli uno per uno, nella speranza di convincerli a rinunciare ai soldi per difendere il suo posto di lavoro.
Come sempre nei Dardenne, lo scenario è innanzitutto sociale: quello di un mondo del lavoro privo di protezioni e di mediazioni, dove ogni struttura di solidarietà è sparita e ciascun lavoratore è abbandonato a se stesso, in balia delle scelte aziendali che mettono i dipendenti l’uno contro l’altro. C’è il tema consueto del potere corruttore del denaro sulle persone, ma non solo. Perché il percorso della protagonista è profondamente umano: in quei due giorni terribili deve entrare nelle vite private dei colleghi e delle loro famiglie, scontrarsi con meschinità e difficoltà autentiche, provocare liti familiari, umiliazioni, risentimenti.
Va detto che nelle pagelle quotidiane del festival, “Deux jours, une nuit” ha ricevuto i voti più alti e si è sempre trovato ai primissimi posti, anche per la forza emotiva che il film raggiunge di pari passo con la sua ricerca di essenzialità linguistica. Ma la stessa cosa non accadeva nella ricezione cinefila, dove il film è stato accolto col senso di sazietà provato verso qualcosa di già abbondantemente noto: un po’ come se i Dardenne, nella loro ricerca di Bresson, finissero secondo alcuni per incontrare Loach.
(Renato Venturelli)