La mia classe – Intervista a Daniele Gaglianone


di Juri Saitta.
Presentato con successo alle Giornate degli Autori all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, La mia classe di Daniele Gaglianone è un film che unendo realtà e finzione affronta problematiche quali l’emigrazione e la coerenza con le proprie idee.

Il soggetto vede al centro un insegnante delle scuole CPT che tiene delle lezioni d’italiano ad alcuni alunni emigrati. Tramite tale interazione si rivelano i problemi e il passato degli studenti, oltre alle loro idee e ai loro pensieri. Successivamente, uno di loro perde il permesso di soggiorno e rischia di venire espulso dall’Italia. Il maestro si trova così di fronte a un dilemma etico: aiutarlo o andare avanti come se nulla fosse successo?
Gaglianone racconta tutto ciò coniugando in modo esplicito e continuo fiction e documentario, non solo con una regia che mette in rilievo la presenza della troupe, ma anche attraverso la scelta dei protagonisti: infatti, se gli alunni sono veri, il docente è un attore riconoscibile come Valerio Mastandrea.
Il regista ha discusso di tutto questo con la scuola CPT e l’Università di Genova il 31 marzo al Cineclub degli Amici del Cinema di Sampierdarena al termine della proiezione dell’opera.
«Inizialmente il film doveva semplicemente far interagire un attore con dei veri studenti migranti, prevedendo in sceneggiatura sia i temi delle lezioni sia le vicende verosimili che possono accadere a un emigrato, come la perdita del permesso di soggiorno con tutte le sue conseguenze. Quando, però, due o tre giorni prima delle riprese uno degli alunni ha veramente perso il documento, ho capito che fino ad all’ora stavo pensando unicamente al mio lavoro e il problema etico del protagonista è diventato così anche un problema etico di noi cineasti. Proprio per questo abbiamo deciso di rendere più esplicito il rapporto tra realtà e finzione», spiega l’autore a proposito della nascita e degli sviluppi dell’opera.
La mia classe è così «un film sulle situazioni in cui non si può o non si ha il coraggio di agire secondo le proprie idee. In tal caso la domanda è la seguente: quanto siamo disposti ad assumerci delle responsabilità?».
Al termine dell’incontro ho avuto l’occasione di tenere una breve conversazione con il regista Daniele Gaglianone.

L’idea di unire realtà e finzione è presente fin dalla scelta di un attore come protagonista che interagisce con persone reali.

Sicuramente la connessione tra i due elementi c’era fin dall’inizio, quando volevamo fare un film narrativo totalmente di fiction. È anche vero, però, che quando si narra una storia si stabilisce comunque un perimetro che è quello del proprio racconto, all’interno del quale si possono far accadere tutte le cose peggiori, ma che in ogni caso è un mondo che si controlla e che per questo risulta in qualche modo rassicurante. La reale perdita del permesso di soggiorno di uno dei ragazzi ha fatto saltare tutto ciò, facendoci sentire che la prospettiva iniziale era inadeguata, in quanto ancora troppo “educata”. Di conseguenza, abbiamo deciso di cambiare la struttura del film nella direzione che ho spiegato precedentemente.

Durante l’incontro si è parlato della coerenza, talvolta difficile da mantenere, tra le proprie idee e i propri comportamenti. Guardando La mia classe si capisce che tale questione etica coinvolge anche chi fa cinema.

Indubbiamente il film prende spunto dalle contraddizioni che ci sono quando qualcuno decide di raccontare e di raccontarsi, che è un momento in cui la società si autorappresenta.
La questione etica nasce soprattutto quando ci si confronta con qualcosa di reale e di concreto. Tutto ciò accade soprattutto con il cinema, in quanto si ha la necessità di confrontarsi veramente con la realtà materica. Dunque, bisogna porsi la domanda di come ci si rapporta con quest’ultima e di cosa ti guida nel farlo.

Cosa ne pensi di altri film usciti in questi ultimi anni che affrontano problematiche come l’emigrazione?

Devo dire che ultimamente non vado molto al cinema, ma tendenzialmente mi sembrano dei lavori che rappresentano l’emigrato come un soggetto che ha bisogno di aiuto, appiattendo così la sua personalità. In questo modo non mostrano tanto le caratteristiche del migrante in quanto individuo, ma piuttosto quelle dell’altro in generale. Con tale film abbiamo cercato di ribaltare tutto ciò, perché nei primi tre quarti d’ora non si parla di nulla se non dei volti degli studenti e dei loro comportamenti quotidiani, in modo che diventino famigliari allo spettatore. Così, quando emerge il loro vissuto da emigrati il pubblico si pone di fronte ai loro problemi in maniera diversa, perché non sono più gli altri che devono essere aiutati, ma sono ormai i propri vicini, i propri compagni di banco e, di conseguenza, il fatto che siano “stranieri” diventa secondario.

Com’è andata la distribuzione dell’opera?

È stata eroica perché la Pablo Film è riuscita a far vivere il progetto in una situazione quasi proibitiva, dove se una produzione non fa parte di certi “cartelli” importanti ha poca speranza di sopravvivere. Se il film avesse potuto giocare la partita ad armi pari avrebbe fatto dei numeri migliori e forse anche sorprendenti.
Se decidono che un film non deve funzionare non funziona, se decidono che al pubblico non piace fan si che non possa arrivare, ma in qualche modo noi ci siamo riusciti lo stesso.

(di Juri Saitta)

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