Le ferite della Storia sono difficili, se non impossibili, da rimarginare. Non serve certo un film per ricordarcelo. Ogni grande tragedia, ogni conflitto epocale, ogni brutalità perpetrata dall’uomo lascia (ha lasciato) segni profondi, tanto nei libri quanto nelle vite di persone comuni, ridotte loro malgrado al rango di vittime.
Proprio lì, su esistenze sfregiate dalla drammaticità del proprio tempo, si concentra Stefan Weinert nell’eccellente documentario Die familie – La famiglia. I protagonisti, posti di fronte alla macchina da presa, inquadrati in primo piano nei loro piccoli interni borghesi, sono cittadini della Germania di oggi, nati e cresciuti nella Repubblica Democratica Tedesca. Volti stanchi però, fiaccati dall’inclemenza della vita. Ad accomunarli, infatti, è la perdita di una persona cara negli anni oscuri del regime di Honecker. Figli, mariti, fratelli: tutti uccisi dai cecchini sul confine con l’Ovest. Caduti in disperati tentativi di fuga verso la speranza di un futuro diverso. Scomparsi lasciando il vuoto nelle rispettive famiglie, trovatesi subito dopo stritolate tra il dolore e la rabbia, e costrette a subire le conseguenze concrete di quelle orribili morti.
Originario di Colonia, classe 1964, Weinert ha le idee chiare e una concezione piuttosto rigorosa dell’immagine e della narrazione. Sa bene che il documentario, più che semplice resoconto cronachistico o riproduzione dell’esistente, può essere efficace strumento di indagine su conflitti irrisolti o addirittura irrisolvibili, di rievocazione e di analisi. Il suo approccio alla materia – decisamente spinosa – non ha perciò l’aggressività e la foga di tanto cinema di denuncia, non ricorre agli artifici di fiction e docufiction. In Die familie la camera è fissa sui parenti delle vittime (i sopravvissuti, verrebbe da definirli), la testimonianza si fa confessione, soliloquio, racconto della perdita e delle sue ripercussioni sulla quotidianità. Dalle loro parole emergono le difficoltà, passate e presenti, di fare i conti con quanto accaduto, ma soprattutto si delinea un quadro cupo dell’allora Germania Est e delle sue storture. Tra pressioni indebite, minacce velate e interrogatori della Stasi, niente fu più come prima per la maggior parte delle persone coinvolte, mentre il loro bisogno di spiegazioni (alcuni dei corpi non vennero mai riconsegnati dalle autorità) si scontrò con uno stato omertoso e monolitico, seppur prossimo al disfacimento. Qui il film tocca il cuore della questione, mostrando come per molti la ricerca di verità non fu tanto una sgradevole appendice alle deprecabili (per il regime) morti violente di traditori della DDR, ma una vera e propria prosecuzione di quelle tragedie, un secondo atto prolungatosi sin dopo la caduta del Muro e i discussi processi ai responsabili degli omicidi: fino ad oggi. Perché condanne o no e nonostante i tentativi di ritorno alla normalità e di rimozione, il passato non è in fondo che un doloroso ricordo che non va mai via, una vecchia foto in bianco e nero impressa nella mente, un lutto impossibile da elaborare, una ferita – appunto – che non si chiude e mai si chiuderà.
Grazie al Goethe-Institut Genua, il documentario sarà proiettato a Genova il 7 aprile, alle ore 18.30 al Cinema Sivori, nell’ambito del Festival Nuovo Cinema Europa. Un’occasione importante per recuperare un pezzo di storia europea purtroppo ancora poco conosciuto e un forte esempio di cinema d’impegno civile.
Massimo Lechi