INTERVISTA A SERENA GARGANI, REGISTA DI ALL’OMBRA DEL PORTO
La migrazione è una delle questioni più complesse del nostro tempo, ma viene affrontata dai media solo quando vi è una tragedia in mare o nei casi in cui la si lega politicamente alla problematica della sicurezza. Sono pochi coloro che invece vogliono mostrare la vita quotidiana dei migranti e ascoltare ciò che hanno da raccontare.
All’ombra del porto di Serena Gargani è un documentario che in circa ventitré minuti cerca di fare proprio questo, senza descrivere però in maniera minuziosa e giornalistica le loro condizioni di vita materiale, ma cogliendo piuttosto i loro sentimenti e le loro emozioni, in un lavoro mai didascalico e retorico, dove le immagini prevalgono sulle parole.
Finanziato attraverso “Produzioni dal basso”, una piattaforma che permette di ottenere piccole offerte da molteplici e volontari donatori, il film è stato girato a Genova e, in piccola parte, in Senegal.
L’opera è stata presentata il 6 marzo al Cineclub degli Amici del Cinema di Sampierdarena all’interno della rassegna “Ovest.doc”. Per questa occasione ho intervistato la regista del cortometraggio.
Com’è nato il progetto del film?
Tutto è cominciato due anni fa da un’idea di alcuni ragazzi dell’associazione “3 febbraio”, un’organizzazione che lavora e lotta per i diritti degli emigrati assistendo in diversi modi coloro che sono nelle situazioni più critiche. Mi hanno chiesto di girare un video che mostrasse e raccontasse a un pubblico più vasto la vita e le ragioni dei migranti senegalesi perché in quel periodo si erano intensificati i controlli al porto, riscontrabili nella presenza di una camionetta con dieci vigili e nell’aumento delle perquisizioni ai venditori ambulanti. Ho accettato in quanto noi li vediamo tutti i giorni, ma sappiamo molto poco delle loro vite, dei motivi per i quali sono qui, dove dormono e che vita fanno.
Inizialmente doveva essere semplicemente un filmato da inviare sul web, ma quando ho intervistato i soggetti e ho conosciuto meglio le loro storie ho capito che si poteva realizzare un documentario più complesso e strutturato.
Le persone con cui hai parlato si sono mostrate immediatamente disponibili a raccontarsi o vi è stata qualche difficoltà?
Le prime interviste sono state realizzate insieme ai ragazzi della “3 febbraio”, un tramite assolutamente necessario senza il quale sarebbe stato molto difficile iniziare il film. Infatti, gli emigrati hanno accettato di raccontarsi proprio in quanto si fidano dell’associazione sapendo che agisce nel loro interesse.
Inoltre, alcune persone sono state intervistate due volte perché con il procedere del lavoro si veniva a conoscenza di più elementi e c’era l’occasione, e anche la giusta confidenza, per approfondire il discorso iniziato precedentemente.
Quali sono le questioni e le problematiche espresse dai migranti durante le conversazioni? Quali di queste ti hanno colpita di più?
Da quando scelgono di partire, non c’è nulla che non sia problematico: l’investimento di denaro, il viaggio spesso clandestino, l’arrivo in un Paese che non ti accoglie, la ricerca di una casa, di un lavoro spesso irregolare per mancanza di permesso di soggiorno. È una scelta difficile sotto tutti gli aspetti, una fatica che non riusciamo neanche a immaginare e che queste persone riescono a sopportare solo per una ragione: la famiglia. È sicuramente questo l’aspetto che mi ha colpito di più durante le loro interviste e che mi ha spinto ad andare in Senegal. Le loro famiglie sono, infatti, il nodo fondamentale per capire il motivo della loro presenza qui, tanto che la maggior parte di loro, se avesse la possibilità di mantenere i propri cari nel proprio Paese non affronterebbe mai tale esperienza.
Nel documentario le interviste risultano praticamente assenti. Perché hai deciso di non inserirle?
Ho scelto di tagliarle per dare al film un respiro più cinematografico. Le interviste sono state sicuramente interessanti e sono indubbiamente servite per conoscere meglio la realtà dei migranti. Per evitare di realizzare un lavoro didascalico ho cercato, però, di esprimere gli stessi concetti utilizzando quasi esclusivamente le immagini.
Le conversazioni sono state però inserite successivamente nei contenuti speciali del Dvd.
Quest’ultimo com’è strutturato? Ha ulteriori contenuti extra?
Il Dvd, realizzato soprattutto dal montatore del film Lorenzo Martellacci, è composto dal cortometraggio, dai contenuti speciali con le testimonianze e da una sezione intitolata “frammenti smarriti”, dove abbiamo incluso alcune delle sequenze che sono state tagliate nel video.
Abbiamo voluto introdurre le interviste nel Dvd per approfondire alcune tematiche già affrontate nel film e reinserirne altre che nel documentario sono assenti perché non espresse dalle immagini, come per esempio la questione abitativa.
Vi è inoltre il backstage della colonna sonora, un aspetto del video di cui sono entusiasta e quasi onorata. La musica è stata realizzata dal gruppo Aparecidos, che in un giorno ha improvvisato sulle nostre immagini, aspetto che rende il loro lavoro ancora più eccezionale.
Prima hai accennato al tuo viaggio in Senegal. Quali sono state le tue impressioni sul Paese?
Premetto che sono andata in Senegal per conoscere la famiglia di uno degli intervistati e filmare qualche immagine suggestiva che invitasse anche alla riflessione, perché naturalmente sapevo che in soli sette giorni era impossibile capire il Paese e farne uno spaccato minimamente approfondito.
Devo dire che sono tornata dal viaggio amareggiata, in quanto ho notato che ero vista dagli abitanti come la tipica turista ricca e occidentale in cerca di attrazioni da fotografare: spesso venivo apostrofata con la parola «tubab», che in Senegal è un termine dispregiativo per dire “bianco”. Tutto ciò m’intristisce perché sento che questo atteggiamento sia assolutamente giustificato dal punto di vista storico, in quanto nel corso degli anni la nostra società ha costantemente oppresso l’Africa e il suo popolo.
Presenterai il film in altre occasioni? Hai intenzione d’inviarlo a qualche festival?
All’ombra del porto verrà proiettato al Nuovo Film Studio di Savona e al circolo Barabini di Trasta all’interno di una rassegna sui diritti. Ho già inviato il video ad alcuni festival, ma per scaramanzia preferisco non specificarli.
(di Juri Saitta)