di Riccardo Ferrari e Paolo Marocco.
Incontro con Aleksandr Balagura, il regista ucraino che vive da anni nel centro storico genovese.
ALEXANDR BALAGURA (KIEV, 1961) È UN REGISTA UCRAINO ATTUALMENTE RESIDENTE A GENOVA. Della sua produzione cinematografica, ricordiamo To our brothers and sisters (Miglior documentario al Festival dei popoli 1990), Widow street (1991), Ali di Farfalla (premio all’IFF Molodist 2008), Life span of the object in frame (menzione speciale al FIDMarseille 2013), Loli Keli Shuba (2013).
Che cosa ti ha portato da Kiev a Genova?
In Italia vivo da quindici anni, ma sul perché sono venuto a Genova si può rispondere in vari modi… dove vivi in realtà è una domanda a cui per rispondere impieghi tutta la vita. Quando vivevo a Kiev lavoravo in uno studio cinematografico, e sono venuto per la prima volta in Italia proprio per presentare due film al Festival dei popoli, nel 1990 e nel 1991. Prima del crollo dell’Unione Sovietica, il cinema era finanziato dallo stato, ma negli anni successivi sono terminati i finanziamenti statali sostituiti da quelli delle tv private. Nel 1995-96, lavoravamo già senza stipendio. La situazione si faceva pesante, ho vissuto male il passaggio dal socialismo al capitalismo, assistendo ai cambiamenti della gente che mi stava intorno. Così, a un certo punto ho deciso di cambiare. Nel 1998 sono stato a Genova per la prima volta e certe cose le senti, qui mi sono trovato a mio agio, non mi sono mai sentito un immigrato. Genova non offre molto dal punto di vista cinematografico, ma dal punto di vista psicologico, è difficile da spiegare … qui mi sono sorpreso, io che mi sento un po’ viaggiatore, nel non volere più andare da nessun’altra parte.
Genova è stata per te una fonte di ispirazione artistica. Cosa hai girato nella nostra città?
A Genova ho girato Life span of the object in frame nella chiesa Santa Maria di Castello, al Porto Antico e in altri luoghi.
Tu non fai un cinema di consumo, e privilegi il documentario, una scelta molto da ‘artista’. Siamo curiosi di sapere cosa sia per te il cinema.
Credo che il cinema sia per prima cosa un linguaggio, come la letteratura, la pittura, la musica. Anche se giovane, è un linguaggio che si è sviluppato molto velocemente e credo che ora sia arrivato a un punto di consapevolezza e sia in grado di riflettere su se stesso. I film che amo maggiormente sono proprio quelli nei quali si manifesta questa consapevolezza: Otto e mezzo di Fellini, o certi film di Tarkovskij, Bergman, Godard e tutta la Nouvelle Vague francese, ma anche di Straub, Ervant Gianikian, Stan Brakhage… Anche se non mi piace la parola ‘sperimentale’, questi ultimi credo siano registi considerati sperimentali.
Tu lavori con diversi formati. Quale ti è più congeniale?
Ho iniziato a fare film in 35 mm, e ho continuato con questo formato che è quello che preferisco. Non si tratta di una specie di snobismo o di legame feticistico con la pellicola. Si tratta di materiale. Bisogna essere consapevoli con quale materiale si sta lavorando. La pellicola è la luce, è il contatto diretto e naturale con l’oggetto della ripresa che in un certo senso tocca la pellicola, lasciando su di essa (e su noi stessi) una viva traccia della propria vita. Il digitale è un segnale, un codice, un qualcosa completamente diverso dalla pellicola… un po’ come tra il marmo e la plastica. Sebbene le ultime opere siano state realizzate in digitale (con una Red One e una Canon) per i soliti problemi di budget.
In To our brothers and sisters, il tuo primo lavoro, viene ripreso un evento che sembra la dissepoltura di una fossa comune. Di quale evento si trattava e dove era ripreso?
Il film è stato girato nel 1989 nella Valle Demianov Laz in Ucraina, ed era commissionato dal Ministero della Cultura. Tratta la scoperta di una fossa comune tra gli anni 80 e 90, durante il crollo dell’Unione Sovietica, quando venivano alla luce gli eccidi dei tempi di Stalin, e non solo quelli staliniani. A me interessava riprendere questo evento non solo per la sua portata storica, ma anche per la comunione tra una folla di vivi e di morti che l’evento riuniva insieme. Rispondere visivamente a una domanda: cosa può fare una persona viva di fronte a una che non lo è più ed è sepolta nella terra? Può pregare, piangere, provare dolore … ma cosa può fare in concreto per la persona morta? Il film in qualche modo riprende sia la possibilità di inserire nella stessa inquadratura i vivi e i morti, sia l’impossibilità di farli interagire.
In Ali di Farfalla utilizzi materiali eterogenei: un vecchio film che non avevi compiuto, immagini amatoriali, di repertorio, sequenze tratte da Muybridge. Qui emerge quello che dicevi rispetto a un cinema che riflette su stesso, e in maniera autobiografica, a partire a Kiev per arrivare qui a Genova. Sembra che l’atto della visione debba essere accompagnato da un’archeologia della visione e della memoria.
Il film parte proprio da una cinepresa in 16 mm che mi aveva regalato mia madre, e grazie a questa, con i miei amici negli anni 80 abbiamo iniziato a girare, e abbiamo ognuno deciso di fare un film. Nella vita poi abbiamo scelto un percorso diverso, ma le pellicole rimangono. A proposito di Muybridge, l’ho sempre amato molto, e lo considero uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Muybridge crea i primi personaggi simbolici di un mondo che diventerà quello popolato dalle immagini create dal cinema, e che continua a popolarsi tutti i giorni. Quelli che sono Adamo ed Eva nella tradizione del mondo cristiano.
Puoi fare un confronto Italia/Ucraina rispetto alla distribuzione cinematografica, alle piccole sale e ai cineclub?
Appartengo a una generazione cresciuta nei cineclub di Kiev, che negli anni 80 erano numerosi. Ora i ragazzi probabilmente guardano i film in rete, ma non so bene che tipo di cinema seguano. Secondo me si avverte comunque l’esigenza di un ritorno alla sala cinematografica, come luogo di incontro tra l’autore e il pubblico. Sto parlando di proiezioni di piccole opere, di piccoli festival. In Francia specialmente, ma anche qui a Genova, quando c’è qualche incontro o rassegna, la gente ci va volentieri.