di Renato Venturelli.
Nasceva un secolo fa Piero Portalupi, grande direttore della fotografia genovese. Filmò la famosa corsa delle bighe di Ben-Hur.
Lo chiamavano l’Ingegnere. Erano gli anni di grandi direttori della fotografia come Aldo Tonti e Gianni Di Venanzo, Tonino Delli Colli o Giuseppe Rotunno, ma il più rispettato sui set di Cinecittà e dintorni era lui: Piero Portalupi, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita. Un artista della fotografia che era però al tempo stesso un grande tecnico e uno dei pochi teorici dell’epoca, il cameraman che filmò la corsa delle bighe di Ben-Hur e che era partito giovanissimo da Genova per andare a insegnare direttamente al Centro Sperimentale di Roma.
Nella sua carriera ha lavorato con molti tra i registi più importanti del cinema italiano, dall’Antonioni di Gente del Po al Visconti di Bellissima, ha fatto un film tecnicamente strepitoso come Carosello napoletano di Giannini, è stato al fianco di Giuseppe De Santis in film di stupefacente ricerca visiva come Non c’è pace tra gli ulivi o Uomini e lupi. “Da allora Scanno l’hanno scoperta un po’ tutti, ma il primo a valorizzare quei paesaggi in fotografia era stato lui”, ricorda la figlia Candida. E quando gli americani arrivarono a Roma, dando il via alla famosa stagione della Hollywood sul Tevere, lo vollero ben presto al loro fianco, anche perché era uno dei pochi a saper parlare inglese.
Realizzò la fotografia di Addio alle armi con Rock Hudson e Jennifer Jones, fu per un anno sul set di Cleopatra di Joseph Mankiewicz e fece Il cardinale di Otto Preminger, lavorò con Jean Negulesco e Michael Curtiz, John Guillermin e Abraham Polonsky. Ermanno Olmi lo volle per E venne un uomo, sulla vita di Papa Giovanni, i produttori americani lo chiamarono comunque come consulente sul set di Vacanze romane, anche se non poteva lavorarci perché già impegnato in un altro film.
Per la corsa delle bighe del Ben-Hur si ricorda che arrivò a variare la velocità di scorrimento della pellicola in corso di ripresa, e che ridisegnò personalmente i raggi delle ruote, in modo che non sembrassero andare in senso contrario quando venivano filmate: per anni, quella sequenza fu considerata uno dei vertici tecnici e spettacolari del cinema. E mentre lavorava a Il tormento e l’estasi di Carol Reed, realizzò di sua mano il prologo sulle statue di Michelangelo: “un critico americano – ricorda ancora la figlia – scrisse allora che il Tormento era il film di Reed, mentre l’Estasi era il documentario di mio padre”.
Era nato il 19 ottobre 1913 ad Arquata Scrivia, dove aveva preso confidenza con la pellicola fin da bambino, nel cinema gestito dal padre. Ma si era trasferito presto con tutta la famiglia a Genova, dove arrivò a laurearsi in ingegneria. Proprio quella laurea ne fece uno dei tecnici e teorici più consapevoli del cinema italiano tra gli anni Quaranta e Sessanta, chiamato subito a insegnare al Centro Sperimentale, ma anche a collaborare con riviste specializzate, dove scrisse importanti saggi, soprattutto sulle trasformazioni tecniche e le loro possibilità di impiego.
Sempre all’avanguardia, fu tra i primi italiani a sperimentare le innovazioni anni ’40 e ’50, dal Ferraniacolor al CinemaScope, dal Todd-A-O al VistaVision e il Technirama. La sua fotografia non era “firmata” solo nei film dei grandi registi: era inconfondibile per le sue ricerche formali anche in opere meno famose, e spicca già nel magnifico bianco e nero di Preludio d’amore di Giovanni Paolucci, tutto girato in esterni a Camogli nell’immediato dopoguerra, oppure in Tombolo, paradiso nero, bel melò criminale di Giorgio Ferroni girato a Livorno e dintorni lungo il litorale toscano. Quanto al panphocus sperimentato nei film di De Santis, Tullio Cicciarelli scriveva: “gli addetti al lavori sostengono che Portalupi consentì esiti superiori a quelli conquistati da Orson Welles”.
Al lavoro sui set, Portalupi affiancava anche un’attività di fotografo, con scatti pubblicati da svariate riviste di settore. Morì ancora giovane, nel 1971, per un tumore al cervello che lo colse nel bel mezzo di una carriera sempre più internazionale. Nel mondo cinematografaro di Roma, del resto, era sempre stato considerato quasi un estraneo, per la sua serietà e il carattere un po’ schivo, amatissimo però dai compagni abituali di lavoro per la coesione che cercava nella troupe.
Nel suo monumentale Dizionario mondiale dei direttori della fotografia, autentica bibbia sull’argomento, Stefano Masi ricorda che “il suo anomalo percorso professionale, che aveva aggirato la tradizionale gavetta del set, e il profondo legame con l’ambiente dei cineasti genovesi, fece sì che Portalupi venisse sempre considerato uno straniero a Cinecittà, uomo lontano dai riti e dai miti del cinema romano”. E aggiunge: “questa lontananza di Portalupi dagli standard dell’immagine del cinema italiano fu la chiave di volta della sua originalità”. Peccato che Genova se lo sia completamente scordato, nonostante ci siano abbondanti materiali a disposizione e fotografie di Portalupi scattate sui set o durante viaggi e sopralluoghi: ci fu qualche anno fa una piccola mostra curata dal Cineforum Genovese nell’atrio del cinema America, e poi più nulla.