[ di Giona A. Nazzaro ]
PER AVERE UN’IDEA ATTENDIBILE DI TUTTO CIÒ CHE PURTROPPO IL CINEMA ITALIANO NON È PIÙ, basterebbe scorrere la filmografia di Giuliano Montaldo, cineasta il cui nome non compare quasi mai nelle liste del cuore della cinefilia, militante e non.
Montaldo, cineasta vero, autentico, la cui forza è pari solo alla sua modestia e rigore, intervistato qualche anno addietro, e riflettendo su come la critica abbia trattato quasi sempre con una certa approssimazione il suo lavoro, invece di reagire con il solito scatto d’orgoglio ormai caratteristico anche dell’ultimo dei mestieranti, spiegava che avendo avuto il privilegio di lavorare in un momento in cui erano ancora attivi i Fellini, i Visconti e gli Antonioni, non poteva pretendere dalla critica che fosse indulgente con quel signore che nella foto di gruppo del cinema italiano stava in terza fila, all’in piedi, sulla sinistra.
Citiamo a memoria, ovviamente, ma l’integrale della conversazione è recuperabile in un dvd dedicato a Valerio Zurlini, realizzato per il mercato home video statunitense.
Questo per dire che Giuliano Montaldo ha sempre avuto una consapevolezza acuta della propria posizione in seno alle cose del cinema italiano e, pur essendo un autore al 100% della definizione che abitualmente si attribuisce alla parola “autore”, ha praticato la sua autorialità in forme aperte, europee, e mai meramente autoreferenziali.
Piace immaginare Montaldo sul set del primo film di Carlo Lizzani, un altro maestro che ha fatto della modestia la sua cifra espressiva portante. Con Lizzani, Montaldo condivide un impegno politico mobile, critico e mai ossequioso dell’apparato ma, soprattutto, un interesse schietto, generoso, aperto, nei confronti delle modalità di racconto tipiche del cinema popolare e che oggi s’indicano genericamente come “cinema di genere”.
Montaldo gira all’americana. Uno dei pochi a dire il vero. Come un altro grandissimo ligure, Pietro Germi. O come il miglior Alberto De Martino. Grande fiuto per le ambientazioni urbane, che poi esploderanno nella grande stagione del poliziesco all’italiana. Ma non solo. Straordinario senso critico nel ripensare la lezione del noir politico à la Jules Dassin, calandola nei gangli nervosi di un cinema spettacolare in grado però di rivolgersi alle problematiche del proprio tempo.
Ad ogni costo, Gli intoccabili ma anche l’esordio Tiro al piccione, Una bella grinta. Cinema robusto, serio, dentro le ragioni dell’industria ma anche della storia del proprio paese. E poi: lavorare con Sergio Leone e Gillo Pontecorvo, Luciano Martino e Francesco Rosi. Come dire che Montaldo è il crocevia delle migliori energie del nostro cinema che nella sua filmografia prendono corpo in forme originali e ricche.
La cosa peggiore è stare a stilare graduatorie di “qualità” in seno al suo lavoro. Come dire: separare l’artigiano che si presta per realizzare Nudi per vivere ed Extraconiugale all’autore di Giordano Bruno. Montaldo cineasta vive il cinema italiano e le sue spinte contraddittorie. Il pregiudizio autoriale tende invece a separare l’autore, colui che fa i film, dal resto dell’industria, considerata, quando va bene, un male necessario.
Montaldo, no. Lui nell’industria ci sta tutto. La comprende e l’asseconda per realizzare i suoi film. Non a caso lui è uno dei nostri cineasti internazionali per eccellenza negli anni Settanta, quando il nostro cinema viaggia oltre il Gra, cosa che oggi riesce solo a Paolo Sorrentino e a pochi altri. Basti pensare alla straordinaria intuizione del Marco Polo televisivo. Realizzato nel 1982, quando il cinema italiano di genere s’arrendeva alla truppe cammellate delle televisioni, quando le sale iniziavano a chiudere a catena, Montaldo dimostra, grande lezione di strategia resistenziale rimasta sostanzialmente incompresa, e in lungimirante anticipo sulla febbre attuale da serie USA, che un’altra televisione era ed è possibile.
Lui e Antonioni pensano la televisione, le due uniche indicazioni produttive e critiche concrete dopo il magistrale Sandokan di Sergio Sollima (1976-1977). (Certo: Rossellini prima di tutti…). Marco Polo, lezione di storia gramsciana, calata in una rilettura critica del cinema hollywoodiano classico, è un modello e una proposta. Le polemiche del clero e dei suoi organi di stampa nulla possono per limitarne il successo, eppure Marco Polo resta un lavoro isolato. Poi è tutto un florilegio di vite di santi.
Così Montaldo giunge sino a noi, oggi con il suo ultimo lavoro, L’industriale, schietto noir dostojevskiano che, nonostante qualche sbavatura di sceneggiatura, ci restituisce un cineasta vero, sempre sintonizzato sul ventre oscuro del paese. Renitente come sempre a distribuire facili patenti di correità, Montaldo osa dare un nome e cognome ai colpevoli. Non banalizza. Tiene le sue inquadrature strette. Bracca i corpi. Studia gli ambienti e li riporta in movimenti di macchina e stacchi di montaggio.
Oggi Montaldo, dopo Lizzani, e senza i Petri e i Damiani a fare da anelli di congiungimento fra le ragioni dell’industria e del pensiero critico, resta come esempio luminoso di un modello di cinema, quintessenzialmente italiano, la cui lezione è stata troppo facilmente e troppo rapidamente dimenticata. Eppure, L’industriale dimostra che non è troppo tardi.
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