di Claudio G. Fava.
Nel 1914 nasceva a Sanremo Mario Bava, grande regista di film popolari e sperimentali al tempo stesso. Figlio di un geniale artigiano, padre del Lamberto Bava di Demoni…
A novembre Sanremo gli ha già reso un piccolo omaggio, questo 2014 sarà l’anno del centenario di Mario Bava, uno dei grandi registi italiani conosciuti in tutto il mondo, ma per lungo tempo trascurato proprio da noi. Il problema lo conosciamo benissimo: Bava esercitava il suo genio nel cinema popolare, quello dei generi a basso costo, tra horror e fantascienza, thriller ed effettacci, là dove il perbenismo umanistico della cultura italiana non osava avventurarsi.
I francesi a dire il vero lo esaltavano fin dai primi anni ’60, la giovane cinefilia italiana lo ha sempre celebrato, poi sono arrivati anche gli americani e finalmente anche in Italia si sono aperti molti varchi. Ma sempre molto cauti sul piano ufficiale: ancora qualche anno fa, al festival di Cannes, la critica internazionale si domandava perché mai in Italia si continuino a restaurare sempre gli stessi film, e ci sia invece tanta ritrosia nell’occuparsi degnamente dei film di Bava, soprattutto di quelli dove il colore è stato deturpato dal tempo e le copie in circolazione sono a dir poco malconce.
Mario Bava era nato nel luglio 1914 a Sanremo, e com’è noto già suo padre era un esempio di quella tradizione artigianale che è alla base di molto grande cinema italiano. “Mio nonno in realtà non si chiamava Eugenio, come viene riportato dappertutto, ma Francesco” ricorda Lamberto Bava, figlio di Mario, a sua volta regista di tanti horror a partire dal celebre Demoni. “Al cinema ci arrivò per caso. Suo padre faceva lo scultore a Sanremo e una notte, all’inizio del ‘900, fu svegliato dai francesi della Pathé che giravano un film nei dintorni e avevano urgente bisogno di un caminetto per le riprese. L’indomani mattina, mio nonno, che all’epoca aveva vent’anni, andò sul set a consegnarlo e rimase conquistato dal cinema. Da quel momento volle farlo anche lui”.
Gli annali ci dicono che nonno Bava diventò operatore, fondò la San Remo Film, realizzò una serie di piccoli documentari negli anni Dieci: San Remo pittoresca, Bussana distrutta dal terremoto, Varo di una nave a Oneglia… Alla vigilia della prima guerra mondiale voleva emigrare in America Latina, ma proprio la nascita del figlio Mario lo fece restare in Italia. “Andò a lavorare all’Ambrosio a Torino, quindi a Roma, dove negli anni ’20 lo fecero direttore del reparto animazione e trucchi dell’Istituto Luce – ricorda ancora Lamberto – Era anche sul set di Ben-Hur, quello del 1924, dove un leone si mangiò una comparsa. Ma era soprattutto un inventore, uno studioso del moto perpetuo, uno che voleva sempre sperimentare novità tecniche. La prima truka in Italia la realizzò lui, in legno. Teneva in casa un’antica macchina da presa, una Mitchell del ’19 che mio padre chiamava “mia sorella”. E ho ancora adesso la sua vecchia moviola in legno, dove c’è scritto Prévost, serie 1, numero 1″.
La storia di Mario Bava è poi nota. Cresciuto tra moviole, truka e cineprese, diventò uno dei migliori direttori della fotografia del cinema italiano ed esordì poi nella regia, inventandosi horror e thriller all’italiana, diventando famoso per i suoi trucchi artigianali a costo zero, ma soprattutto cominciando ad usare i racconti di genere per realizzare un cinema sempre più libero e sperimentale dal punto di vista linguistico. La maschera del demonio (1960) o I tre volti della paura (1963) lavorano splendidamente sul gotico tradizionale, cominciando ad innovarlo. La ragazza che sapeva troppo (1963) e soprattutto Sei donne per l’assassino (1964) danno il via al thriller italiano. La frusta e il corpo (1964) è un esercizio di sadismo impensabile nell’Italia di allora, e per questo censuratissimo. Operazione paura (1966) contiene una famosa sequenza da cinema d’avanguardia, in cui il protagonista insegue se stesso attraverso una serie di stanze sempre identiche, scivolando in una dimensione onirica e surreale. E qualche anno più tardi, Reazione a catena (1971), girato tra Sabaudia e Latina, lanciò lo slasher movie. I suoi film del resto non reinventavano solo il linguaggio visivo, magari attraverso le celebri zoomate, ma terremotavano anche la tradizionale coerenza narrativa del cinema classico.
“Mio padre aveva fatto il liceo artistico e disegnato vignette per il Marc’Aurelio – ricorda ancora Lamberto – Da giovane aveva anche frequentato l’ambiente dei pittori di via Margutta, e gli storyboard li disegnava personalmente, molto bene. Oltre che all’arte, era però molto interessato anche alla letteratura: adorava soprattutto i russi, e il titolo Demoni del mio film lo devo proprio all’aver notato in libreria una copia dei Demoni di Dostoevskij che aveva fatto rilegare in pelle, come tutti i libri che amava di più. Negli anni ’50 leggeva Proust e Pavese, ma anche i Gialli Mondadori e la serie Urania: apparteneva a una generazione che si era formata sui classici dell’800, ma non si era certo fermato lì”.
E i legami con Sanremo?
“La famiglia veniva dal Piemonte, anche il generale Bava Beccaris faceva parte di un ramo… Io sono cresciuto a Roma e sono romano, ma in casa i miei nonni parlavano sanremasco e anche mio padre si rivolgeva a loro in dialetto: per cui anch’io, se lo sento parlare, un po’ lo capisco. Ricordo anche quando venni con lui a Genova, dove faceva l’operatore per un film, Perdonami: uno lo insultò per strada dandogli del romano, lui gli rispose in dialetto, lasciandolo di stucco. Però il suo rapporto con Sanremo rimase sempre controverso. Il sindaco lo invitava spesso a farsi una casa lì, ma lui non tornò mai, anche se rimase sempre legato alla Sanremo dei suoi ricordi infantili. Chissà, forse temeva di essere schiavizzato dalle zie zitelle…”.
Il paradosso di oggi è che Mario Bava, morto nel 1980, viene celebrato in tutto il mondo, citato come maestro da grandi registi americani come Scorsese e Tarantino, Tim Burton e Joe Dante, oggetto di festival e retrospettive dall’altra parte dell’oceano, ma continua ad essere trascurato proprio qui da noi. Speriamo che nell’anno del centenario venga degnamente ricordato, magari insieme al coetaneo Pietro Germi (1914-1974): anche perché, mostrando Bava e discutendo dei suoi film e del suo stile, si sarebbe costretti a parlare davvero di cinema.
(R.V.)