In Polonia c’è del marcio. Almeno a giudicare da Traffic Department di Wojciech Smarzowski, thriller polacco sulla corruzione presente nel paese.
Il film narra di una centrale di polizia stradale squilibrata e disonesta, i cui membri sono sempre pronti a intascare bustarelle da persone che dovrebbero multare.
Uno dei componenti della squadra, il sergente Ryszard Krolis, viene accusato dell’omicidio di un proprio collega morto in circostanze misteriose. Indagando per dimostrare la sua innocenza, Krolis troverà diversi video amatoriali che evidenzieranno l’alto tasso di degrado morale di tutte le istituzioni nazionali, dalla polizia alla politica.
L’opera ha avuto un grande successo di pubblico nel suo paese, diventando campione d’incassi e superando colossi statunitensi come Iron Man 3 e I puffi 2.
Risultato non scontato e sorprendente, in quanto il film non è certamente destinato a tutte le fasce di pubblico, dal momento che presenta sia una problematica molto seria che delle immagini piuttosto forti di sesso e violenza.
Tale successo può essere letto come il segnale di una crescente sensibilità dei polacchi nei confronti della corruzione politica e istituzionale, oltre che della loro volontà di usufruire di un cinema più impegnato nei temi e nei contenuti.
Il merito di questo trionfo popolare è però anche della messa in scena dal ritmo narrativo piuttosto incalzante, dove una cadenza quasi frenetica ricca d’avvenimenti e d’azione rende avvincente una trama a tratti intricata e passabili dei toni spesso eccessivi e sopra le righe.
Ma l’aspetto più interessante del film sta soprattutto nella continua alternanza tra inquadrature professionali e immagini amatoriali, realizzate con videofonini, telecamere private o di videosorveglianza.
Se questa scelta linguistica risulta talvolta un po’ forzata e irritante perché non sempre giustificata, è doveroso notare che, più o meno volontariamente, ci comunica qualcosa sul cinema e sulla nostra contemporaneità.
Se dal punto di vista estetico sottolinea ancora una volta quanto l’uso di video non professionali faccia ormai parte di un certo linguaggio cinematografico; da quello sociale evidenzia che viviamo in un’epoca dove non abbiamo più il controllo razionale dei mezzi tecnologici, con i quali ci filmiamo continuamente, (auto)monitorando – spesso in maniera inconsapevole – le nostre vite.
A confermarlo è anche un altro film presentato al 31° Torino Film Festival: l’indiano Ugly, action/thriller dai toni decisi su una polizia inefficiente che abusa del proprio potere e su una società (auto)controllata da diverse tecnologie.
Entrambi i film hanno contraddizioni e difetti, ma risultano complessivamente interessanti, soprattutto perché contribuiscono a indicarci le direzioni che stanno prendendo un certo tipo di cinema e una certa parte della società.
(di Juri Saitta)