Grecia, giorni nostri. Un pater familias disoccupato controlla, tra le mura candide di un piccolo appartamento di città, moglie, tre figlie e due nipotini. Regna uno strano equilibrio, e tutti appaiono soggiogati dallo sguardo spiritato del nonno-padrone. Durante la festa per il suo undicesimo compleanno, però, la sorella più piccola si getta al balcone, sconvolgendo definitivamente il corso della storia familiare.
E inizia proprio da lì, dal corpo di una ragazzina che si schianta al suolo sulle note di Dance Me to the End of Love di Leonard Cohen, Miss Violence di Alexandros Avranas, il film scandalo del concorso di Venezia 70. Una morte disperata che dà il la al progressivo svelamento di una realtà di orrori e violenze insospettabili, di contorte punizioni e ricatti emotivi. La macchina da presa inizia infatti a seguire le azioni dei membri della famiglia, a studiarne i comportamenti, i piccoli riti, a scrutare negli occhi vitrei delle donne e nei volti spenti dei bambini, dipendenti dall’uomo in tutto e per tutto. E a emergere è il male, assoluto. Il nonno si rivela presto un vile maniaco responsabile della deflorazione delle figlie, le quali vengono da tempo vendute per poche ore di sesso ad altri maniaci in cambio dei soldi necessari per cibo e bollette. Un’inspiegabile sindrome di Stoccolma rende schiave delle turbe di un pazzo tre generazioni di prigionieri impotenti. Pedofilia, prostituzione, stupri e incesti, dunque: non manca nulla al campionario di Avranas, a questo asfissiante microcosmo borghese ricettacolo di ogni turpitudine, di ogni brutalità – rigorosamente ben protette dalle lisce superfici delle porte chiuse. Tutto viene accettato come inevitabile, come una convenzione domestica. La violenza – costante, metodica, sempre innanzitutto psicologica – è il carburante invisibile che alimenta la vita quotidiana.
Chiara, la metafora. E ambiziosa. Allo studio, sotto la lente entomologica di un abilissimo narratore intento a colpire le platee tormentando i suoi personaggi-insetti, ci sono i meccanismi di potere, l’oppressione generata dall’atavico dominio della figura maschile, il patriarcalismo che relega la donna al ruolo di eterna vittima silenziosa, la vendetta come chiusura sanguinosa del cerchio drammatico e infine la funzione cancerogena del denaro, elemento demoniaco che corrompe i rapporti e accelera la disumanizzazione dell’individuo. La famiglia disfunzionale (eufemismo) non è altro che lo specchio di un mondo in decadenza e di una società, quella greca (ma non solo), ricoperta dalle macerie di una crisi economica inarrestabile.
Si è molto parlato, in questi ultimi anni, delle nuove leve cinematografiche greche, dell’ultima generazione di registi emersa prepotentemente dai principali festival europei, tanto da scomodare la tutt’altro che insensata definizione di “nouvelle vague greca”. Film come Attenberg di Athina Rachel Tsangari o Kynodontas e Alpeis di Yorgos Lanthimos avevano in comune uno sguardo al contempo disorientante e compartecipe, sarcastico e drammatico su una Grecia ridotta a spazio spettrale – quasi sempre mesti interni piccolo-borghesi, per l’appunto – attraversato da un’umanità inguaribilmente laconica. La bizzarria delle situazioni e la crudezza dello sberleffo (si pensi ai giochi linguistici di Kynodontas) davano vita a pellicole destabilizzanti, radicali, ricche di irresistibile umorismo nero. In Miss Violence, invece, si assiste al forse ineludibile scatto in avanti (o indietro, dipende dai punti di vista): i folli paradossi si sono tramutati in passaggi meccanici di un perverso teorema narrativo, il gusto per la messinscena essenziale ma ricercata si è congelato in frigida estetizzazione e l’imperturbabilità registica, di conseguenza, è diventata fissità, un indugiare sull’abiezione che inchioda lo spettatore alla violenza in campo e lo costringe al ruolo di voyeur, di vittima passiva – e in un certo senso complice – di immagini che raramente indicano o raccontano più di ciò che mostrano. Si ghigna pilotati dalla mano del regista (L’italiano di Toto Cutugno piazzata ad arte in una delle sequenze più drammatiche e squallide; i volti di due stupratori allupati durante una scena di violenza carnale ripresa con frontalità quasi pornografica), mentre i cortocircuiti di senso e linguaggio che avevano reso vitali i precedenti film di questo nuovo corso sono venuti completamente meno, e a essere rimasto, per larghi tratti, è solo il sospetto fortissimo di un compiacimento di comodo, fine a se stesso. Come se per Avranas il calcio nei denti – con rincorsa – fosse l’unico modo per trasmettere al pubblico l’insensatezza del mondo in cui viviamo. O per imporsi e conquistare un ambito Leone d’oro.
Massimo Lechi