Alla 70° Mostra del Cinema di Venezia il premio della Giuria è andato ad uno dei film più controversi e sperimentali presentati al lido, un’opera provocante e provocatoria che ha diviso la critica: Die Frau des Polizisten (La moglie del poliziotto) di Philip Groning.
Una famiglia composta da un padre poliziotto, una madre casalinga e una figlia di circa cinque anni vive in un piccolo paese tedesco dall’architettura rossastra e circondato da boschi alberati dove abitano volpi e scoiattoli. I tre sembrano essere felici e contenti proprio come il luogo aulico e un po’ fiabesco dove vivono, ma in realtà qualcosa di quotidianamente violento e sinistro si nasconde dietro quest’apparente armonia.
Se il tema dell’infelicità che si cela sotto la superficie di perbenismo e “bontà” piccolo-borghese non è di certo nuovo e originale, quello che rende interessante la fatica di Groning è il meccanismo narrativo e registico con cui il tutto è costruito.
Il film è strutturato in 59 brevi o brevissimi capitoli che alternano molti momenti nei quali non accade nulla di rilevante a pochi altri in cui si chiarifica qualcosa, mentre dei terzi episodi si rivelano dei semplici bluff che vogliono sviare l’attenzione dello spettatore. Tutto ciò per una durata di quasi tre ore, 175 minuti nei quali l’autore tedesco sfida il pubblico mettendolo di fronte ad una visione difficile e a tratti estenuante, ma che riesce comunque a creare un certo clima d’attesa e una forte tensione psicologica.
Durante la prima parte del film poco o nulla viene rivelato, anzi, capitolo dopo capitolo alcune scene misteriose ma innocue si alternano al fin troppo tranquillo scorrere della vita quotidiana, trasmettendo così un particolare senso di curiosità in cui si attende una sequenza, un’inquadratura o un dialogo che chiarifichi almeno in parte la direzione che il regista vuole intraprendere.
Contemporaneamente, però, tale forma narrativa inserisce il pubblico in un’atmosfera inquietante d’insicurezza e spaesamento, dove i punti fermi sembrano quasi del tutto assenti e, soprattutto, in cui si ha lo strano presentimento che da un momento all’altro possa accadere qualcosa di drammatico, nonostante non ve ne sia alcun indizio evidente.
L’angoscia e la tensione psicologica crescono man mano che il film va avanti, soprattutto nella seconda parte, quando finalmente alcuni episodi cominciano a mostrare il male che si nasconde dietro la placida quotidianità famigliare. Da lì in poi lo spettatore prende gradualmente coscienza dei lati oscuri prima nascosti ed è proprio tale consapevolezza ad aumentare il senso d’inquietudine. Se, infatti, nella prima parte la suspense era data dall’incertezza generale e da un presentimento un po’ vago dell’esistenza di qualcosa di “oscuro”, dalla seconda metà in poi il tutto si fa più chiaro ed evidente, la violenza prima solo lontanamente intuita si fa presenza concreta – anche se spesso solo suggerita. Questo anche nei capitoli più tranquilli, dove ogni gesto, ogni sguardo, ogni passo potrebbe potenzialmente dar vita ad atti rabbiosi e brutali.
Così, Groning costruisce un fine gioco psicologico con lo spettatore, un gioco creato con una struttura narrativa che alterna e fa condividere attesa, spaesamento e angoscia.
L’operazione è solo apparentemente pretenziosa e fine a se stessa, ma in realtà risulta un modo assai originale – anche se molto freddo e cinicamente calcolato – di coinvolgere “empaticamente” lo spettatore: quest’ultimo, infatti, viene totalmente immerso nell’inquietudine e nell’ansia quotidiane dei protagonisti.
Tutto ciò fa di Die Frau des Polizisten un film piuttosto coraggioso e interessante, che – al di là del giudizio di merito che se ne può avere – resterà nei ricordi del pubblico festivaliero come uno dei guizzi più originali della 70° Mostra del Cinema.
(di Juri Saitta)