Lunedì 4 marzo al cinema America di Genova è iniziata la nuova rassegna della cineteca D. W. Griffith intitolata “Giovane canaglia”, dedicata al noir italiano dagli anni ’40, ’50 e ’60.
I due titoli che hanno aperto la retrospettiva sono stati La ragazza che sapeva troppo (Mario Bava, 1963) e Una ragazza piuttosto complicata (Damiano Damiani, 1969).
Tratto da un racconto di Moravia del 1959 (La marcia indietro), il film di Damiani è una riflessione a tratti metacinematografica e a tratti psicologica sul voyeurismo e sul ruolo che l’individuo ha come spettatore della vita propria e altrui.
La storia d’attrazione sessuale e psicologica tra Claudia (Catherine Spaak) e Alberto (Jean Sorel) è basata soprattutto su un gioco morboso legato al riprendere e all’osservare: la coppia si filma, si osserva, si fa osservare e osserva gli altri nelle situazioni più intime e personali, cercando in alcuni episodi di affrontare frustrazioni varie e shock legati alla propria infanzia.
Tali vicende aprono ad un’interessante riflessione sul ruolo che abbiamo come spettatori e come registi della nostra vita, sulle situazioni in cui agiamo e su quelle in cui stiamo a guardare, sui momenti in cui siamo coinvolti e su altri in cui cerchiamo di essere più o meno distanti, protetti e distaccati.
Risulta quindi emblematico il personaggio di Alberto, un giovane uomo che rivendica e predica il proprio tentativo di essere una sorta di “osservatore esterno” della propria vita e del proprio agire: le sue azioni – anche quelle più decisive – sono svolte senza un vero coinvolgimento emotivo e hanno spesso il fine di essere viste e raccontate in modo distante e “divertito”.
Inoltre, la dinamica del riprendersi e del guardarsi costantemente potrebbe apparire – soprattutto al pubblico attuale – come un riflesso di una società dove tutto è subordinato allo “spettacolo” e in cui i rapporti umani sono dominati dall’apparenza e dalla superficialità.
Così, la pellicola di Damiani svolge anche un discorso metalinguistico su come possa essere visto e usato il cinema: da un lato come mezzo per riprendere e vedere in modo voyeuristico la vita, dall’altro come arte capace di rielaborare la realtà.
Questo si evince non solo dalla presenza costante di una cinepresa utilizzata più volte, ma anche da un particolare e curioso episodio in cui Alberto e Greta (la matrigna della protagonista, interpretata da Florinda Bolkan) discutono di alcune possibili sequenze di montaggio, rivelandone le possibilità narrative e semantiche. L’omaggio all'”effetto Kulesov” risulta così piuttosto esplicito: Damiani – evidentemente influenzato da un certo clima culturale – rielabora l’importante esperimento dell’autore e teorico sovietico che ha dimostrato la fondamentale importanza del montaggio, questione che il regista italiano ha voluto forse un po’ forzatamente ricordare.
La scena appena citata rappresenta inoltre parte del linguaggio cinematografico adottato da Damiani: una narrazione tutto sommato abbastanza lineare, ma che non rinuncia ad alcune scelte registiche leggermente “sperimentali” (vedi l’appena citato episodio sul montaggio e la scena vagamente onirica della telefonata).
I contenuti e i vezzi linguistici descritti s’incontrano e si scontrano con l’esplicita gratuità di alcune scene hot e con una colonna sonora da commedia erotica, caratteristiche che talvolta portano il film a una deriva al limite del trash.
Di conseguenza, il risultato è quello di un’opera sempre un po’ in bilico tra ambizioni artistico-intelettuali e strategie strettamente commerciali, tra riflessioni critiche sul voyeurismo e su un suo pieno e consapevole uso da parte del regista.
La retrospettiva “Giovane canaglia” proseguirà tutti i lunedì fino al 22 aprile (escluso il giorno di pasquetta) con film per la maggior parte rari e introvabili.
(di Juri Saitta)