Ogni anno il Torino Film Festival organizza una retrospettiva dedicata ad un autore emergente e ancora sconosciuto in Italia.
Nella scorsa edizione è toccato ad esempio al giapponese Sion Sono (Suicide Club, Cold Fish, Himizu), mentre quest’anno è stata la volta del portoghese Miguel Gomes, il quale ha presentato – oltre ai corti – i suoi tre lungometraggi: A cara que mereces, Aquele querido mes de agosto e, soprattutto, Tabu, il film-rivelazione dell’ultimo Festival di Berlino.
L’ultima fatica di Gomes è girata in bianco e nero ed è divisa in due parti nettamente distinte e differenti, ma allo stesso tempo strettamente e profondamente legate: la prima – intitolata Paradiso perduto – è ambientata nel Portogallo dei giorni nostri e vede come protagoniste Pilar (un’attivista nel mondo cattolico), Aurora (una donna anziana non più mentalmente lucida) e la badante di quest’ultima; la seconda – chiamata Paradiso – si svolge invece in una parte dell’Africa colonizzata dal Portogallo e racconta le vicende amorose dell’allora giovane Aurora.
Grazie anche a tale divisione e al particolare linguaggio cinematografico adottato nel secondo capitolo, Tabu risulta una pellicola dalle molteplici letture e interpretazioni.
La prima è storica/politica, in quanto la pellicola “registra” in maniera personale e intimista le mutate condizioni economiche del Portogallo: nel primo, desolante, capitolo il film descrive amaramente e ironicamente un paese sprofondato in una crisi devastante i cui riflessi si riscontrano nella freddezza dei rapporti umani e nella solitudine degli individui; nel secondo, invece, il regista dipinge in modo poetico e caustico un passato e un luogo (l’Africa) in cui il Portogallo era una discutibile potenza coloniale, con i suoi abitanti, i suoi paesaggi, le sue leggende.
In questa seconda parte, l’autore non nasconde le contraddizioni e le sofferenze dei protagonisti, ma le avvolge in un’affascinante atmosfera sognata e sognante, sospesa e aulica, la quale rimanda ad un altro tema importantissimo: quello della memoria e del passato da essa reinterpretato.
Questo non lo si capisce soltanto dall’atmosfera generale, ma anche e soprattutto dal fatto che il racconto è un flashback fortemente soggettivo in quanto narrato da un solo personaggio che alla cronaca dei fatti aggiunge i propri sentimenti di gioia, dolore e nostalgia.
Inoltre, in tale capitolo il sonoro viene sfruttato per i rumori e la voce narrante, mentre risulta assente nei dialoghi, scelta linguistica che rievoca il cinema muto e il cinema in generale, quindi un’arte che per statuto registra in modo personale e soggettivo eventi reali o creati, interpretandoli e “modificandoli”.
Operazione, quella del cinema e dell’arte non poi così dissimile dal funzionamento della memoria, in quanto anch’essa “modifica” e ripercorre in modo particolare gli eventi vissuti, sembra suggerirci l’autore portoghese.
Così, tutta la parte africana, con i suoi momenti ironici e nostalgici vive su un doppio binario: la cronaca dei fatti e la loro portata emotiva e memoriale, proiettando lo spettatore in un passato reale e sognante al tempo stesso, proprio come possono essere i ricordi.
In tal senso la prima parte con la sua desolazione emotiva fa da contrappunto alla seconda: Paradiso perduto e Paradiso sono due universi diversi, opposti ma complementari, il primo quello di una quotidianità misera, dall’altro quello della memoria, con le sue passioni e i suoi avvenimenti forse romanzati.
Il film indubbiamente omaggia il cinema e, soprattutto, un autore come Murnau – basti pensare al titolo e al nome della protagonista –, ma risulta particolarmente evidente anche il suo interesse per il piacere del racconto orale, tanto che nel secondo capitolo la voce off è spesso fondamentale per seguire gli eventi centrali e, soprattutto, collaterali, talvolta persino più delle immagini, le quali – pur non rinunciando del tutto alla loro funzione narrativa – hanno in primo luogo il compito di evocare un’atmosfera, raffigurare personaggi e riprendere paesaggi.
Questo non è un limite del film o un vezzo del regista, ma risulta piuttosto una scelta utile a evidenziare il fascino della narrazione orale, a rimarcare la soggettività del racconto, e, infine, a realizzare un melodramma raffreddato.
La storia d’amore, infatti, si presterebbe a toni forti e sopra le righe – da melodramma, appunto – ma Gomes grazie all’uso narrativo del sonoro ed evocativo delle immagini trasmette allo spettatore tutti i sentimenti, le gioie e i tormenti dei protagonisti mantenendo al tempo stesso dei toni tenui, i quali però non sono mai freddi e distaccati.
In conclusione, Tabu risulta un film storico/politico, intimo/memoriale, narrativo/evocativo, desolante/poetico, in cui lo spettatore è messo di fronte ad almeno due possibilità: cercare di scavare nella profondità dei contenuti e nell’originalità del linguaggio cinematografico o abbandonarsi ad un’avventura audiovisiva magnifica e affascinante.
(di Juri Saitta)