Bizzarro film d’esordio per Jules Stewart, madre tatuatissima di Kristen “Twilight” Stewart, da oltre vent’anni attiva a Hollywood nel revisionare e supervisionare sceneggiature, per lo più televisive, ma anche con una collaborazione con David Lynch per “Una storia vera”.
Poteva scegliersi un esordio tranquillo, con quelle storielline intimiste che fanno tanto cinema indipendente, e invece va ad affrontare un film carcerario tutto sopra le righe, a base di transessuali, guardie corrotte, droga e violenza dietro le sbarre.
Asse della storia è un discografico d’alto bordo completamente fatto, che viene trascinato esanime in galera dopo una notte di bagordi e prima di rendersi conto di cosa gli stia succedendo è già stato rinchiuso in un reparto speciale di fuori di testa, il K-11 del titolo. Una volta inghiottito dalla camerata, scoprirà a poco a poco il modo in cui è stato incastrato, cercando di elaborare un suo piano per uscirne in qualche maniera. Ma nel frattempo deve fare i conti col mondo in cui è sprofondato. La camerata è nelle mani di una drag queen capricciosa e violenta che controlla il traffico di droga. Tra le brande si aggirano personaggi di ogni tipo, compreso un gigantesco pedofilo coloured che infierisce su un altro transessuale, una Butterfly schizzatissima e vendicativa (ad interpretarla c’è la minuta Portia Doubleday). E dall’altra parte della barricata c’è un poliziotto laido, corrotto e vigliacco che sceglie le sue vittime tra i prigionieri.
Insomma, una di quelle storiacce che non è facile tenere sotto controllo, sia per i rischi di teatralizzare troppo lo shock corridor, sia per quelli di lasciarsi scappare di mano il gioco delle caratterizzazioni forti. Aggiungiamoci che Jules Stewart, da collaudata script supervisor, crede a tal punto nella sceneggiatura da inventarsi un meccanismo di inganni e vendette che può a sua volta risultare soffocante.
Il risultato è però un film curiosamente sbilanciato sul versante fiabesco, volutamente artificioso, come se tutti i personaggi fossero finzioni oniriche a lieto fine, cliché iconografici riproposti nella loro convenzionalità, ma raccontati con una certa compattezza narrativa e puntando molto sugli attori. Fra tutti spicca Kate Del Castillo, quarantenne star messicana, già vista in “Bordertown” o “La misma luna”, qui nel ruolo centrale della dominatrice della camerata, sensuale, spietata e innamoratissima di se stessa. Il resto è questione di caratterizzazioni, a cominciare da D.B.Sweeney nella parte del laidissimo sergente Johnson , mentre il protagonista è il croato Goran Visnijc. Passato a Torino nella sezione “Ossessioni & Possessioni”, tra inevitabili discussioni sulla scelta di far interpretare ad attrici i ruoli chiave dei transessuali.
(renato venturelli)