Nel mondo del cinema realtà e finzione qualche volta si confondono con effetti stranianti. Non succede solo che i protagonisti di commedie sentimentali si innamorino anche fuori dal set o che importanti produzioni debbano rimettersi in gioco a causa di eventi esterni e incontrollabili – tanto per citare due casi tipici che riguardano i film – ma anche che la coscienza politica di un personaggio cambi il corso delle cose, come talvolta è accaduto alla notte degli Oscar. O come è successo alla trentesima edizione del Torino Film Festival, che è partita a fine novembre con l’annuncio di Ken Loach che – per solidarietà con i lavoratori precari ed esterni del Museo del Cinema, alcuni appena licenziati, tutti sottopagati – declinava l’invito a ritirare il Gran Premio Torino. Il regista di Bread and Roses oltre ad aver dato forfait ha anche voluto annullare la proiezione della sua ennesima e riuscitissima commedia a sfondo sociale La parte degli angeli, in uscita nelle nostre sale. Ma, a posteriori, viene da pensare che se Loach avesse visto i film in concorso, forse avrebbe cambiato idea, perché il tema del lavoro è stato il protagonista involontario – sin dalle premesse appunto – di questa edizione.
Le professioni più disparate: i benzinai – padre e figlia – di una stazione di servizio sperduta nel mezzo delle Highland scozzesi del vincitore Shell di Scott Graham; l’improvvisata lettrice di fondi di caffè di Present Tense di Belmin Söylemez; il finto giocatore professionista di golf interpretato da Colin Firth in Arthur Newman di Dante Ariola; le baby prostitute di Call Girl di Mikael MarciMain; il regista Gipi che si mette in scena nel suo Smettere di fumare fumando, l’attore in attesa di provino di Tabun Mahabuda di Emyr Ap Richard e Darhad Erdenibulag; e, antifrasticamente, i disoccupati di Terrados di Demian Sabini.
Ma anche nelle altre sezioni: i nani toreri del poetico Blancanieves di Pablo Berger, in stile muto; l’impresario musicale irlandese Terri Holley di Good Vibration di Lisa Barros D’sa e Glenn Leyburn; la sessuologa praticante e il giornalista nel polmone d’acciaio di The Session di Ben Lewin; il pecoraio metropolitano del documentario L’ultimo pastore di Marco Bonfanti.
Soprattutto per i titoli in competizione, mestieri praticati con fatica, nella speranza di uscire dalla logica di lavoro-guadagno-sopravvivenza (Terrados, Present Tense) o dall’insoddisfazione di una vita infelice (Arthur Newman, Call Girl). Un cinema che con gli stili e le ambientazioni più diverse sembra farsi carico del paradosso di una società in cui da una parte l’accresciuta scolarizzazione e la conseguente crescita personale fanno sì che le persone cerchino di realizzarsi in campo professionale, ma dall’altra le difficoltà della crisi economica globale, il flop del sistema capitalistico, riducono sempre di più l’offerta e le possibilità di lavoro.
Francesca Felletti