Recentemente la Facoltà di Lettere e Filosofia di Genova, la Cineteca D. W. Griffith e Garaje Lumière di Madrid hanno sostenuto un progetto filmico su Edoardo Sanguineti diretto dall’esordiente Fabio Giovinazzo.
Il risultato è un documentario di cui il manifesto recita così: “Kinek ìrod ezt?” un film per Sanguineti, di Fabio Giovinazzo». E forse nessuna frase meglio di questa può esprimere e anticipare le intenzioni del regista.
Infatti, Giovinazzo non ripercorre in modo classico l’arte e la vita del poeta, ma – contrariamente – evita la classica alternanza tra interviste e immagini di repertorio, realizzando piuttosto un film sperimentale e articolato, che gioca con il linguaggio cinematografico come Sanguineti giocava con il linguaggio letterario.
Se nella prima versione presentata il 1° giugno a Palazzo Rosso alcune interviste erano presenti (si pensi alle scene con Ottavia Fusco, Raffaele Perrotta e Massimo Sannelli), in quella definitiva sono state tagliate o perlomeno ridotte all’essenziale, in quanto l’autore sentiva che non erano del tutto coerenti con le sue intenzioni sperimentali.
Il risultato finale – che verrà presentato a fine novembre all’Officina Coviello di Milano – è quello di un documentario stratificato e complesso, il quale richiede una visione particolarmente attenta e magari di qualche spiegazione.
Utile a tutto ciò potrebbe essere la seguente intervista a Fabio Giovinazzo, con il quale abbiamo discusso dei contenuti e delle scelte linguistiche del suo lavoro.
Cosa ti ha colpito maggiormente della figura di Edoardo Sanguineti e quali sono i suoi aspetti che hai voluto trasmettere nel film?
Ho sempre considerato Sanguineti una personalità a dir poco interessante dal punto di vista artistico e trovo che il mio modo di fare cinema sia molto simile alla sua scrittura sperimentale.
Con questo film ho voluto rendere omaggio al poeta attraverso il mio particolare stile cinematografico: nel film la figura di Sanguineti né si vede né si sente, ma la sua opera risulta comunque presente in ogni scena e in ogni singola inquadratura.
Ad esempio, la lunga e statica ripresa della stazione ferroviaria rappresenta le frasi senza punteggiatura di alcune delle sue poesie; mentre la sequenza della vignetta di Dylan Dog dove dei neonazisti attaccano una giovane ebrea e la scena in cui una ragazza (l’attrice Ilaria Scaliti) vede Notte e nebbia di Resnais trattano della spettacolarizzazione della guerra, tema particolarmente caro al poeta.
In altre scene, invece, vengono direttamente citati dei testi di Sanguineti: è il caso – ad esempio – di Ottavia Fusco che canta Habanèro, la canzone scritta dal poeta che Pippo Baudo escluse dal festival di Sanremo.
Anche il titolo rende omaggio a Sanguineti?
Sì. Kinek irod ezt? rappresenta al meglio i giochi di parole che il poeta faceva nei suoi scritti. È una frase ungherese che ancora adesso non capisco del tutto ed è, inoltre, una domanda. Penso che il titolo ponga fin da subito dei dubbi e degli interrogativi allo spettatore e in qualche modo annuncia quello che sarà il mio film: un’opera non immediatamente comprensibile, che gioca volutamente a provocare e stimolare il pubblico, proprio come faceva Sanguineti nelle sue poesie.
Potresti parlare dei diversi riferimenti alla Pop Art presenti nel film?
Ho inserito dei richiami a tale corrente perché interessava molto a Sanguineti, tanto che avrei desiderato cominciare il documentario proprio con una scena tratta da Lonesome Cowboys di Andy Warhol, cosa che non è stata possibile per via dei diritti d’autore.
In ogni caso, molte sono le scene e le inquadrature che si riferiscono alla Pop Art, a cominciare proprio dalla già citata vignetta di Dylan Dog, la quale rappresenta l’arte di consumo, ma penso anche al lungo primo piano di una lattina di Pepsi-Cola, che cita in modo esplicito la Coca-Cola di Warhol.
Anche la scena del mattatoio è un richiamo alla pop art: in questo caso, l’immagine della carne macellata rappresenta il consumo della carne, mentre la sottostante colonna sonora, di una radio accesa, fa riferimento all’ascolto di massa.
Hai girato il tuo documentario soprattutto a Genova. In che maniera hai voluto riprendere la città?
Ho filmato Genova in modo tale che non venisse subito riconosciuta. È per questo che non ho inquadrato i luoghi e i monumenti più celebri della città. La Genova di questo film è una Genova atipica, che ad una prima visione potrebbe sembrare una qualsiasi altra metropoli. In tal senso, ho realizzato volontariamente l’operazione inversa a quella di Pietro Marcello nella Bocca del lupo, dove invece emergono in maniera evidente i vicoli della città.
La mia è una Genova molto intima e personale: probabilmente ho inquadrato soprattutto il mio modo di vederla e pensarla.
Inoltre, ho “mascherato” e “nascosto” la città anche per provocare lo spettatore e in qualche modo per deludere le sue aspettative: infatti, il pubblico si aspetta di vedere un documentario su Sanguineti e su Genova, ma nel primo caso il poeta è sempre presente ma non appare mai, mentre la città viene spesso inquadrata, ma non è quasi mai veramente riconoscibile.
Tali scelte possono sicuramente dividere la platea in maniera netta. Il mio è un lavoro che può provocare reazioni molto positive o molto negative, in ogni caso spero piuttosto forti e decise.
Anche tutto ciò ha dei legami profondi con l’opera di Sanguineti, in quanto anche il poeta desiderava che le reazioni degli spettatori fossero nette, sia quando erano favorevoli sia quando erano contrarie alla sua opera.
Quali sono i tuoi riferimenti cinematografici? Questi hanno influenzato in qualche modo il film?
Sicuramente mi ritrovo in registi come Sokurov, Tarkovskij e Malick. Credo che ci sia un filo rosso che leghi questi autori, una certa lentezza e una certa staticità riflessiva delle loro immagini.
The tree of life è sicuramente un film che mi ha colpito e influenzato molto. Penso ad esempio alla scena dei dinosauri, una sequenza in qualche modo provocatoria perché apparentemente non ha alcun nesso con il resto del film, ma che invece ha un forte legame concettuale con tutto il lavoro di Malick.
In fondo, è quello che accade in maniera analoga nel mio documentario: anche in questo sono presenti delle scene che ad una prima visione non hanno alcun collegamento tra di loro, ma le quali risultano in realtà fortemente legate.
Un altro regista che ammiro molto è David Lynch, perché anche nei suoi film minori e meno riusciti si sente la sua forte presenza autoriale, con i suoi simboli e le sue riflessioni psicologiche.
A proposito di psicologia, nel sito internet del documentario (www.kinekirod.blogspot.com) dichiari che quando giri un film diventi il miglior psichiatra di te stesso. Quanto e come sono presenti gli aspetti psicologici personali in questo lavoro?
Nel mio film ogni scena e ogni inquadratura rispecchia il mio stato d’animo interiore mentre la stavo girando. Infatti, si passa spesso da sequenze e immagini piuttosto digeribili ad altre più pesanti e angosciose.
So però che hai realizzato anche alcuni lavori fotografici. Me ne potresti parlare?
Kinek ìrod ezt? è il tuo esordio alla regia. In questo momento presso EBLIG, l’ente bilaterale ligure per l’artigianato, in via XII ottobre è installata una mia mostra fotografica finanziata dalla UIL in cui racconto in maniera particolare il gesto al lavoro: questi movimenti sono sì inseriti nell’ambiente lavorativo, ma al tempo stesso li ho ripresi in maniera tale che possono benissimo essere estratti dal loro contesto e diventare altro.
Inoltre, sto realizzando un altro lavoro fotografico che affronta il tema della Serbia attraverso lo stato d’animo di una ragazza che visse in prima persona cause e conseguenze delle vicende belliche nei Balcani.
Nel campo cinematografico hai dei progetti futuri?
Sì, sto lavorando a un soggetto da presentare alla Torino Film Comission. Non posso dire molto, ma anticipo che questo mio nuovo film tratterà della crisi dei valori nella società contemporanea attraverso le emozioni e le angosce di una giovane ragazza. Il linguaggio cinematografico sarà più o meno sulla stessa scia del documentario su Sanguineti.
(di Juri Saitta)