In principio c’è la caotica periferia napoletana con una carrozza dorata dalle poltrone rossofuoco, cavalli bianchi, pennacchi e bardature, valletti in pompa magna. La macchina da presa viene giù dal cielo e segue la carrozza fino a uno di quei megaristoranti fiabeschi, dove si tengono feste e ricevimenti.
Reality di Matteo Garrone inizia con uno sfarzoso matrimonio, prepotente esibizione di sperpero di denaro. Intorno, ci sono la Napoli disastrata, il traffico imbottigliato, l’inquinamento, i quartieri popolari: nel castello, per un giorno, c’è la carnevalesca carrozza, una pioggia di confetti, la foto di gruppo davanti a una finta cascata, ci sono gli sposi, i familiari, gli invitati, tutti lì a negare ogni evidenza. E, quel che più conta, alla festa nuziale partecipa una star della televisione, uno che è arrivato alla finale del Grande Fratello, pagato per dispensare baci e autografi.
Eccoci qua. Dentro una resuscitata commedia all’italiana. Genere glorioso, scomparso verso gli anni Settanta. Genere che ha insegnato agli italiani quale sia stata la loro storia e che si è chiesto quali fossero e continuino a essere i nostri caratteri nazionali, le sempiterne inclinazioni, gli usi, i costumi, i comportamenti dell’italiano medio e mediocre di fronte agli sbandamenti delle nostre vicende negli anni dall’Unità fino al boom economico e adesso, con Reality, fino alla desiderata irrealtà del Grande Fratello. Perché questo è Reality: una commedia all’italiana, classica e attuale, comica, triste e consapevole, che racconta gli ultimi decenni quando si è creduto in una felicità a portata di mano e in una gloria a disposizione di chiunque, soprattutto di chi, per quanto infelice e disperata fosse la sua esistenza, ce l’avesse fatta a entrare nel mondo dell’illusione televisiva.
Come in uno dei più bei film e delle più profonde commedie italiane, Una vita difficile di Dino Risi, anche Reality racconta la vita troppo difficile di un italiano qualunque, il pescivendolo napoletano Luciano Ciotola: e già questo nome e cognome è all’altezza dei nomi e cognomi dei personaggi della nostra commedia, come il Silvio Magnozzi di Alberto Sordi nel film di Risi. Ciotola e Magnozzi: piccoli italiani alle prese con problemi e sogni, con il magnà, con una ciotola da riempire, con i soldi, il lavoro.
Basta una manciata di film dolceamari e cent’anni di storia ci passano davanti. Dalle lotte operaie della Torino di fine Ottocento de I compagni alla prima guerra mondiale di La grande guerra, al fascismo di La marcia su Roma, a Una vita difficile che dalla Resistenza arriva al boom economico e alle illusioni dei primi Sessanta. Reality aggiunge orgogliosamente a questa storia qualche altro decennio, quelli dell’addormentamento televisivo.
Verso la fine dei Settanta la commedia all’italiana era svanita nel nulla, nessuno era più riuscito a raccontare (salvo rari casi, tra gli ultimi il Non pensarci di Zanasi) la nostra storia insieme alla storia di un italiano come tanti.
Negli anni Ottanta sono venuti sul proscenio i cosiddetti nuovi comici, che non guardavano (e continuano a non guardare) al di là di se stessi, che pensano che loro stessi bastino a fare un film, che credono di non avere bisogno di un buon regista e di bravi sceneggiatori, che fanno piccoli film dove la nostra storia non c’è o è accucciata sullo sfondo.
Reality sta invece dentro gli ultimi vent’anni e ne racconta l’epilogo, segue un Luciano Ciotola che non si accorge neppure che il sogno televisivo è tramontato. Reality è la fine dei sogni e il suo protagonista non lo sa.
C’è un’altra ragione che fa di Reality una vera commedia all’italiana ed è che Garrone ama profondamente Luciano Ciotola. Il Garrone narratore e regista sa bene che Ciotola sbaglia tutto, da quel matrimonio pacchiano fino all’imponente via crucis romana e all’ingresso (sognato?) nel sancta sanctorum televisivo, nel paradiso terrestre del Grande Fratello. Sa che sbaglia tutto eppure gli vuole bene, come Risi voleva bene al suo Magnozzi e Monicelli ai suoi soldati Oreste Iacovacci (Sordi) e Giovanni Busacca (Gassman), infingardi eroi nelle trincee della grande guerra. La commedia italiana mette in scena i nostri vizi capitali, non perdona i suoi protagonisti senza gloria che passano dalla sottomissione servile alla ribellione insensata, che vorrebbero sfuggire alle trappole della storia e invece ci cascano sempre dentro.
Eppure ogni regista di commedie sta al fianco del suo personaggio, lo vuole capire. Questo fa Garrone con il pescivendolo Ciotola: la sua infatuazione imbecille per la gloria televisiva è un’altra delle tante fregature all’italiana, quando si perde di vista la realtà e si finisce in un reality inconsistente e perdente. Ciotola è testardo, simpatico, allegro, tatuato, è un piccolo truffatore (i robot domestici a forma di pinguino!) ed è povero, lui e la sua corte familiare di donnone e bambini che vivono in un palazzo cadente. Da lì, Ciotola vuole scalare la piramide del successo e per salire in alto perde se stesso, si costruisce come il
personaggio che la televisione vuole che sia. L’attore principale e bravissimo, Aniello Arena, ha un perfetto nome da commedia all’italiana, un napoletanissimo Aniello pronto a buttarsi nell’arena televisiva. Che Aniello Arena sia un carcerato, chiuso da anni e per altri anni ancora a Volterra, dà a Reality un sapore crudele. Anche in questa commedia all’italiana, l’italiano inteso come sommatoria di tutti gli italiani è condannato a scontare la pena nel suo carcere di storte abitudini, sogni bislacchi, infatuazioni grottesche, patetiche fantasticherie. Sogni del tutto sbiaditi: neppure il Grande Fratello fa più gli ascolti di una volta.
(di Bruno Fornara)