«La bellezza, senza la libertà, è impossibile». Così Marco Bellocchio ha esordito davanti alla nutrita platea raccoltasi nella Sala del Minor Consiglio di Palazzo Ducale, a Genova. Non una dichiarazione di poetica o uno slogan per titoli a effetto, ma un modo per affermare con risolutezza l’autonomia del regista nei confronti del reale, spazio d’azione la cui inevitabile complessità non può essere vissuta come limite o – peggio – subita. «C’è sempre un confine di realismo dentro cui cerco di muovermi liberamente»: il suo cinema non rinuncia dunque al diritto di trasfigurare e produrre immagini, neppure di fronte a fatti di cronaca capaci di sconvolgere un paese interno.
Libertà, del resto, sembra essere una parola chiave per l’intreccio di storie che compongono Bella addormentata, presentato con successo alla Mostra del Cinema di Venezia. Tre episodi, tre riflessi di un’umanità incapace di affrontare vita e sentimenti all’interno di un contesto sociale sconvolto e soffocato dal peso di dilemmi etici e conflitti morali irrisolti (il film, come è noto, prende le mosse dal caso di Eluana Englaro).
Su questo e altro il regista bobbiese è tornato al termine dell’incontro pubblico, ripercorrendo per Film D.O.C. le tappe del suo ultimo lavoro.
Cosa l’ha spinta a dirigere Bella addormentata?
E’ stata anche una casualità. Io avevo elaborato un progetto che si chiamava Italia mia – anch’esso un film di fantasia -, i cui personaggi riecheggiavano però alcune figure della politica italiana, ed in particolare il presidente Silvio Berlusconi. Questo progetto farsesco non è stato accettato da nessuno, è stato rifiutato completamente. Ma subito lo stesso produttore che mi aveva detto no mi ha chiesto invece se avevo in mente qualche altra idea: e allora ho pensato ad un soggetto scritto tempo prima. Alla fine, dal rifiuto di Italia mia è nato questo film.
Era dagli anni Settanta che lei non lavorava su un soggetto riconducibile alla cronaca o comunque alla stretta attualità – Sbatti il mostro in prima pagina, ad esempio. In questo caso sono passati solo tre anni dalla fine del caso Englaro: non sono certo i trenta o quasi che dividono Buongiorno, notte dalla morte di Aldo Moro.
Ha ragione: Buongiorno, notte è il passato remoto, questo è il passato prossimo. Al tempo stesso, però, questa distanza più breve dai fatti che racconto è stata molto utile per non cadere nella tentazione ideologica di fare un film contro o a difesa di. In un certo senso, sono stato più libero.
Quindi la vicinanza temporale alla cronaca l’ha vissuta come libertà e non come un limite?
Sarebbe stato un limite lavorarci subito, il giorno stesso della morte di Eluana. I tre anni passati mi hanno aiutato a non cadere da solo in una trappola ideologica e soprattutto a non farmi strumentalizzare dal fatto in sé. Il fatto era sì recente, ma la distanza, anche se non eccessiva, mi aiutava.
Lo chiedo perché, per l’artista, la Storia può rivelarsi una sorta di incubatrice. Il tempo passa, la libertà aumenta e il distacco concede di intraprendere strade alternative – penso al suo Moro che esce dalla prigione indisturbato. Se un fatto è ancora sentito dal pubblico, non ci può allontanare troppo dalla realtà.
Sì, questo per me era chiaro. Tanto è vero che, dal momento che nel film sarebbe stata nominata Eluana, ho telefonato a Beppino Englaro – persona verso cui ho una grandissima stima. Gli ho spiegato che il film sarebbe partito dalla morte di sua figlia, ma che avrebbe parlato di altro, che non sarebbe stato come una fiction – pur nobilissima – sulla sua storia, con magari i loro personaggi prima dell’incidente. L’ho fatto per affermare sin dall’inizio che mi sarei fortemente separato dalla cronaca. E lui mi ha concesso questa libertà. Non mi ha posto nessun conflitto.
Il caso Englaro ha avuto una risonanza enorme, ed è ancora – utilizziamo un’espressione banalmente giornalistica – una “ferita aperta” a tutti gli effetti. Lei era consapevole, quando ha iniziato ad impostare il progetto, che il film sarebbe arrivato ad un pubblico potenzialmente più ampio, e soprattutto molto attento alla questione?
Io ho una certa considerazione del Cinema, e non solo del mio. Fai un film e questo ha una vita lunga e diversificata, resta nel tempo: è un documento che poi altri giudicheranno. Per cui ci tenevo a dire quello che realmente credevo. In questo caso, ho sentito molto la responsabilità della testimonianza, ma l’ho sentita sempre legata ad un’esigenza di libertà artistica, al non essere schiavo del conflitto, al non chiedermi in continuazione “Farò la cosa giusta?”. Non ho misurato le parole come spesso accade quando c’è una forte conflittualità ideologica… All’epoca di Buongiorno, notte, per capirci, c’erano state molte critiche ideologiche: mi dicevano che la Storia non era andata così, che i brigatisti non erano così, che Moro non era come nel mio film. Qui, invece, mi è stato tutto più facile perché i personaggi sono inventati. Non dovevo rispondere a nessuno: è fantasia.
Il film ha una struttura a incastro, una sorta di mosaico con più storie che si dipanano ai piedi del letto di Eluana. Faceva già tutto parte del soggetto di partenza o le vicende sono nate a poco a poco?
La tempistica non la ricordo con precisione. Senz’altro l’episodio che mi è venuto in mente nel momento in cui ho deciso di fare il film è stato quello della tossicodipendente e del medico [interpretati da Maya Sansa e Pier Giorgio Bellocchio n.d.r.]. Proprio perché sentivo la necessità di contrapporre al destino di Eluana – che per me era un destino segnato – quello di una ragazza che ha tutte le possibilità di vivere, di sviluppare la propria creatività, di avere un’esistenza complessa e completa, ma che invece si vuole uccidere. E allora la “bella addormentata” è innanzitutto lei. Quindi mi piaceva la contrapposizione di quel caso definitivo – quello di Eluana, cioè – a questo, tutto irrisolto ma dove le potenzialità umane sono intatte. Poi sono arrivati gli altri episodi.
La struttura è tra le cose che ha colpito maggiormente, stando anche a quanto si è letto dopo la presentazione a Venezia. Il suo cinema è fatto sempre di percorsi individuali, mentre qui la narrazione è spezzata. E’ come se lei avesse frazionato il dolore e la difficoltà dell’Italia di fronte al dilemma etico in più storie.
Questo è perché sentivo che mentre a Udine [città in cui è morta la Englaro n.d.r.] avveniva ciò che tutti sappiamo, nel resto dell’Italia era in corso altro. Quindi la dimensione spaziale, nel film, è molto importante, anche se non ben individuata: possiamo solo supporre che l’ospedale sia a Roma, che l’attrice sia in Toscana, che la casa del senatore sia in Romagna. L’intento era di dare, attraverso i personaggi, l’immagine di un paese.
Infatti sono tutti casi-simbolo e, in un certo senso, casi-limite.
Sì. E però disseminati per l’Italia proprio per ottenere questo effetto. Poi, naturalmente, ci si può chiedere perché mi sia fermato solo a tre vicende – anche se, in realtà, sono quattro perché la storia con Alba Rohrwacher è a sé… Diciamo che l’ho fatto perché volevo che il film avesse una durata “normale”. Avevo l’impressione che, per approfondire, quelle storie bastassero.
E così facendo ha ottenuto un affresco. Si può avanzare l’ipotesi che la “bella addormentata” sia l’Italia?
Lei non è il primo a dirlo… Si può dire così, sì. Si può dire.
Un’Italia smarrita, però. A questo proposito io ho trovato due costanti nel suo film. La prima è estetica, d’immagine: il limbo. I suoi sono tutti personaggi in attesa, che galleggiano, e le loro storie sono sospese, con finali aperti.
Però ci sono anche dei movimenti, attenzione…
Ma sempre all’interno di situazioni ovattate, quasi dei circuiti chiusi. Penso al bagno turco dei senatori o alla stanza da letto che ospita i suoi Romeo e Giulietta.
Diciamo che sono rapporti movimentati… Il senatore, ad esempio, si dibatte, ma alla fine prende una decisione. Sia pure con tanti palpiti, si muove. Poi, effettivamente, ci sono dei personaggi che restano fermi… I limbi però sono sempre solo attraversati. Il bagno turco è sì un luogo dantesco, ma già la situazione di Isabelle Huppert, che è di blocco, ha al suo interno il personaggio di un figlio molto sofferente che, non a caso, cerca di modificarla. Sia nel senso di riconquistare la madre sia nel senso di compiere una scelta estrema e delirante come interrompere la vita della sorella [in coma e attaccata al respiratore n.d.r.]. Ripeto, è molto importante non tanto il concetto quanto il sentimento del movimento. Per cui ci sono sicuramente dei personaggi che girano su sé stessi, ma ce ne sono altri che in modo sincero tentano una via d’uscita, rompono qualcosa. Poi è vero che non si tratta di un film trionfante, con dei finali sicuri. Prendiamo la giovane tossicodipendente: ad un certo punto decide di non buttarsi dalla finestra, torna a letto, ma è solo l’inizio di un viaggio verso l’ignoto.
La seconda costante è forse l’ambiguità. Ogni personaggio ha un fondo ambiguo nei suoi comportamenti. Tutti recitano. Pensiamo al Servillo ex socialista che è costretto a votare una legge contraria al suo stesso passato, alla Huppert che abbandona le scene per condurre una recita “assoluta” nella vita vera, o persino al personaggio della Rohrwacher, la cui lotta pro-life è probabilmente solo una reazione alla morte della madre.
Sì, per la giovane interpretata da Alba la scelta pro-life è una reazione amplificata al comportamento del padre – al quale attribuisce una responsabilità che in realtà non ha, cosa che poi lei stessa riconosce. In questo senso, ci sono dei personaggi che recitano e che rimangono sempre gli stessi. Per cui anche il senatore di Servillo manca l’appuntamento: sta per arrivare e dire la sua [con un discorso in Senato in cui dichiara voto contrario alla legge sull’alimentazione forzata n.d.r.] e non ci riesce perché Eluana nel frattempo muore. Però si può supporre che lo farà in un altro momento, anche se nel film la cosa resta sospesa. Poi, al di là delle mie dichiarazioni, conta quello che arriva allo spettatore. Se cioè crede che lui andrà avanti con questo proposito o se, come spesso accade agli uomini, se ne dimenticherà. Che io gli dia fiducia ha poca importanza.
In questo quadro oscuro c’è però anche spazio per sentimenti incontaminati, non patologici. L’episodio con Alba Rohrwacher e Michele Riondino è una storia d’amore.
“Amore” è una parola importante… credo la più sputtanata di tutta la storia dell’umanità. Nel film è qualcosa che nasce senza programmazione tra Alba e Michele, mentre negli altri rapporti, invece, ha una sua complessità maggiore, una sua patologia. In questo episodio mi interessava rappresentarlo proprio per sottolineare l’estraneità della fede di lei. Sono un laico e una credente, e lei se ne dimentica completamente perché è attratta fortemente dal ragazzo – il quale poi si sottrae a causa dei problemi del fratello. Ma resta una possibilità, non si tratta di un amore romantico, esemplare.
Però anche se non è esemplare ed è necessariamente mozzato dalla fine del film, l’amore apre per un attimo uno spiraglio di luce. Sembra indicare una speranza.
No, “speranza” non mi piace… quella la lasciamo ai disperati. C’è una concretezza. Io credo che i sentimenti esistano, anche se spesso gli uomini li negano e scappano.
(di Massimo Lechi)