“Pietà” di Kim Ki-duk

pietàKim Ki-duk torna a Venezia a otto anni di distanza da “Ferro 3. La casa vuota” e, tra applausi scroscianti e critiche entusiastiche, prenota virtualmente un premio.
Lo avevamo lasciato con i capelli prematuramente bianchi, intento a filmarsi gli alluci in una catapecchia in Arirang, disturbante docu-confessione presentata a Cannes nel 2011: un uomo solo e depresso, un artista in crisi, in cerca di sé, spaventato da quell’abisso interiore che fino ad allora aveva saputo esplorare con tanta veemenza, attraverso storie di incomunicabilità incastonate in quadri di grande bellezza figurativa. Lo abbiamo ritrovato con un vistoso codino e la pelle abbronzata, circondato da flash e sguardi adoranti. “In Corea parlano di me come del regista famoso in Europa” ha dichiarato durante la conferenza stampa di Pietà, suo ultimo film in concorso, “ma la mia produzione cinematografica trova purtroppo poco spazio all’interno del mercato nazionale”.

Lamentazioni di circostanza a parte, l’autore sudcoreano, qui al Lido, ha – probabilmente, visto il soggetto – dormito sonni tranquilli: il consenso è stato pressoché unanime, lo stesso delle sue prime premiatissime opere, di quelli che si riservano ai film destinati a restare.
Parlare di un regista ritrovato o, addirittura, di un talento finalmente sbocciato nella sua totalità appare tuttavia errato, e soprattutto pericoloso. C’è infatti qualcosa di profondamente turpe in Pietà, qualcosa di stridente, di malato. Di preoccupante.
Presentato come un atto d’accusa al capitalismo sudcoreano (e non solo), il film ha, sulla carta, tre protagonisti: un uomo, una donna e il denaro. Lui è un giovane Frankenstein dal sorriso obliquo, che riscuote sadicamente i prestiti concessi da uno strozzino agli artigiani impoveriti da un’economia in rapido cambiamento. Lei è una donna afflitta, che si insinua nella vita dello spietato picchiatore presentandosi come la madre che l’aveva abbandonato ancora in fasce. Il denaro è invece la presenza incombente, il motore nascosto a cui ricondurre un agire ridotto a sopraffazione meccanica.

Lui vive quindi di violenza, lei cerca di soccorrerlo, di riportare un po’ d’amore in una quotidianità dominata dal Male (forza incontrollabile abbracciata senza esitazione, come se il libero arbitrio fosse un’ipotesi di scuola). Tutto crolla, muore all’avanzare dei grattacieli, e il Bene non esiste, spento dal grigiore delle nuvole. La donna si rivelerà madre di una delle vittime del ragazzo, intenzionata a vendicarsi in modo atroce: suicidandosi, e dunque facendo morire l’unico – neonato – affetto di colui che le ha devastato l’esistenza, il quale, finalmente consapevole del dolore causato, si farà trascinare via, incatenato a un camion, in un’alba purificatrice senza luce.

In questa storia di colpa e vendetta, dominano il nero delle ombre e degli interni, il cemento opaco, il marrone e i colori autunnali di una natura morta e squallida, come morte e squallide sono le viuzze delle periferie attraversate con passo sonnambolico. In questo involucro ovattato le dinamiche sado-maso scattano implacabili, detona la violenza, le teste delle anguille vengono mozzate e i personaggi, sguinzagliati dal loro creatore con tutto il carico di nevrosi che li accompagna, si massacrano a vicenda, del tutto indisturbati. Nei primi minuti Kim Ki-duk inanella un suicidio per impiccagione, una masturbazione, un amplesso disperato, l’amputazione di un arto, un pestaggio e infine uno stupro incestuoso. La sua macchina da presa – sprofondata in un digitale sporco – non si ferma letteralmente davanti a nulla, assecondando con movimenti secchi i colpi inflitti alle vittime, inquadrando in dettaglio le gambe fracassate e le interiora degli animali scuoiati e mangiati dal protagonista. Il sangue scorre grumoso come gelatina, le grida deformano i volti, mentre gli zoom traballanti si trasformano in corpi contundenti, in scatti calcolatissimi capaci di far penetrare lo spettatore nel cuore della sofferenza in campo.

Ne scaturisce un cinema crudo, secco, compiaciuto, sommamente ricattatorio nell’ossessivo ricorso al muco e all’urlo per alimentare il dramma: un teatro degli orrori dove simbologia e metafora religiosa (Kim Ki-duk è di fede cristiana), una volta esauritasi la furia della narrazione, si rivelano una sorta di cortina dietro cui nascondere un nichilismo radicale che fa confondere la vendetta personale con la punizione divina, il pentimento con l’autoflagellazione e indica neppure troppo larvatamente il martirio come unica via per la remissione dei peccati.

In noi tutti c’è una parte di vittima e una di carnefice: a seconda della situazione il ruolo può cambiare, ma le due parti di certo coesistono” ha chiosato il regista, prima di dedicarsi sorridente agli autografi. Perciò, radicalità di sguardo o incubi oscuri e misantropia? Tragedia sul potere demoniaco del denaro o massacro dei sentimenti filmato con la rabbia fredda di chi non vede speranza e futuro?
Il problema del suo film è palesemente etico, anche se l’impressione finale – al netto del ben noto bisogno di espiazione delle platee festivaliere e della sacrosanta libertà da concedere all’artista – è che Kim Ki-duk sia oggi soprattutto il carnefice di sé stesso.

(di Massimo Lechi)

Postato in Festival, Festival di Venezia.

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