“Bellocchio racconta Eluana Englaro. Bellocchio fa un film sull’eutanasia. Bellocchio si immola artisticamente sull’altare della cronaca per affermare una tesi (LA tesi) e far politica a mezzo cinema.” Questo si è letto e scritto per mesi, mentre le polemiche relative alla Film Commission del Friuli Venezia Giulia si incancrenivano e l’ombra del pregiudizio ammantava l’ancora segretissima pellicola di uno dei più grandi maestri europei in attività.
Chi vedrà il film capirà tuttavia di essere di fronte a qualcosa di infinitamente più complesso. Proprio come è successo qui a Venezia, dove pubblico e stampa hanno tributato i giusti applausi a un’opera (“film necessario” affermano i più) di grande valore e importanza, senza ripetere le imbarazzanti imboscate di solito riservate ai titoli italiani più attesi in concorso.
Né narrazione banalmente appiattita sulla cronaca, né ricostruzione aridamente puntuale del caso che sconvolse l’Italia nel 2009, Bella addormentata di Marco Bellocchio è invece l’intreccio di tre storie di libera invenzione, tutte ruotanti intorno al dichiarato dramma principale. Tre fili narrativi che si distendono sulle musiche di Carlo Crivelli e sulle immagini di repertorio trasmesse dagli schermi televisivi: i dubbi etici di Uliano Beffardi (Toni Servillo), senatore Pdl dilaniato tra la disciplina di partito e il richiamo della coscienza, chiamato a votare il disegno di legge sull’alimentazione forzata mentre la figlia Maria (Alba Rohrwacher), attivista pro-life, si innamora perdutamente – e shakespearianamente – di un giovane (Michele Riondino) della fazione opposta, pro-eutanasia; la fascinazione oscura esercitata da Rossa (Maya Sansa), tossica ferina e sensuale, sul medico (Pier Giorgio Bellocchio) che l’ha salvata dal suicidio; e infine il dramma della Divina Madre (Isabelle Huppert), celebre attrice costrettasi ad abbandonare le scene e a recitare la parte della santa senza macchia per ottenere la guarigione della figlia caduta in coma anni prima.
Tutto intorno, il nome di Eluana. Un nome pronunciato dai giornalisti, urlato nei picchetti fuori dall’ospedale di Udine, declamato in Parlamento, bisbigliato nelle stanze del potere da una classe politica ripresa a sussurrare al telefonino, a farsi immortalare in patetiche foto di gruppo o a sguazzare in bagni turchi dalle piscine fumanti, sorta di piccoli gironi infernali per dannati di infima categoria e inconsistente importanza storica.
L’affondo del regista, in questo magma, è diretto alle contraddizioni di individuo e contesto: il senatore ex socialista passato ad una destra conservatrice che, messo di fronte alla possibilità di negare la propria storia personale per calcolo politico, si smarrisce e tenta una fuga di coerenza; la figlia oltranzista che, mettendo da parte senza esitazione la causa in nome del sentimento, finisce a letto col “nemico”; la femminilità in gabbia che cerca una morte che non arriva, scolpendosi sulla carne le tacche del suo estenuato fallimento; il martirio “attoriale” di una madre che simula la fede per ottenere un miracolo. Tutti casi emblematici, incarnazioni del conflitto permanente che scuote il singolo in un’Italia ipnotizzata dalla tregenda mediatica scatenatasi intorno al letto di una ragazza in coma.
Il paese soffre, si contorce: basta il pensiero del corpo di Eluana – mai visto, solo immaginato, nella realtà come nella finzione – per mandare in tilt le coscienze e costringere ogni personaggio a ripiegare su sé stesso in cerca di una risposta che coinvolga, nell’immediato, l’agire e, in prospettiva, il senso del vivere sociale.
Bellocchio punta evidentemente alto e tenta il grande affresco sulla tragedia politica e morale dell’Italia contemporanea. Conchiuso infatti in una struttura più convenzionale, il suo racconto procede implacabile e appassionante, ma perde in parte quell’alternanza di fluttuazioni pensose e scarti improvvisi, di rapimenti onirici e strappi sonori tipica di pressoché tutta la produzione precedente. La dissonanza (di tono, di ritmo, di recitazione), vera e propria cifra bellocchiana, diventa qua e là stecca, forzatura, e la necessità di legare e articolare le tre storie genera passaggi talvolta sbrigativi. Peccati veniali, sia chiaro. Piccole imperfezioni. Che tuttavia svelano con chiarezza la volontà di farsi capire, di arrivare al punto senza eccessive mediazioni, anche a costo di cedere a sottolineature didascaliche o sacrificare la “musicalità” dell’immagine all’impatto di una parola sempre assertiva, tranciante.
Bellocchio non si normalizza, dunque, ma cerca il pubblico con un’insistenza nuova, mosso da un nobile disgusto che ha la medesima forza centrifuga della rabbia degli anni giovanili, pur necessitando, per trovare sfogo, di una costruzione più curata (da qui, forse, il ricorso agli sceneggiatori Stefano Rulli e Veronica Raimo) e di uno stile più controllato (si pensi alle dosatissime impennate surreali, vere e proprie eruzioni di bellocchismo nel grigiore del reale).
La forza dell’insieme, anche grazie a imperfezioni e sbavature, è autenticamente impressionante, con i tre drammi irrisolvibili incastrati in un mosaico che si sfarina alla fine, all’annuncio della scomparsa di Eluana, quando le storie si inchiodano davanti al bivio del possibile, aprendosi contemporaneamente all’incertezza del futuro. Mentre l’Italia resta immobile sullo sfondo, in attesa di un nuovo caso Englaro.
(di Massimo Lechi)