Per buona parte della critica e del pubblico veneziano L’intervallo di Leonardo Di Costanzo è stato il film-rivelazione della 69° Mostra del cinema di Venezia, tanto che i rumors lo indicavano come sicuro vincitore della sezione Orizzonti e del premio “Luigi De Laurentis” per la migliore opera prima. Inoltre, il film è stato definito da alcuni critici come l’unico capolavoro del festival e non poche persone si sono chieste il motivo per cui non sia stato selezionato per il concorso principale.
Forse, definire capolavoro l’esordio al lungometraggio di finzione di Leonardo Di Costanzo è eccessivo, ma sicuramente il suo è un film molto riuscito e molto intenso nella sua apparente semplicità.
La storia vede protagonisti Veronica e Salvatore, due adolescenti che vivono nella periferia di Napoli e che devono passare una giornata insieme, in quanto Veronica è obbligata dalla camorra – per motivi che saranno rivelati solo nel finale – a restare per un giorno in un edificio abbandonato, sorvegliata dal coetaneo Salvatore, costretto dal clan a farle da carceriere.
Con L’intervallo, Leonardo Di Costanzo ha firmato un film piccolo dal lato produttivo e semplice, almeno in apparenza, nello stile e nella regia. Quest’ultima, molto sobria e piuttosto lineare, risulta però particolarmente interessante perché riesce a mettere in rilievo sia la psicologia dei protagonisti che il contesto sociale ed economico in cui vivono, giocando sull’alternanza tra inquadrature ravvicinate e campi lunghi.
Se i piani ravvicinati rivelano il lato più intimista dell’opera, in quanto scrutano, osservano e pedinano i due giovani, descrivendo le loro reazioni, le loro paure, le loro speranze e la loro solitudine, i campi lunghi ritraggono il degrado e lo squallore degli ambienti – dall’edificio abbandonato ai palazzi popolari – osservando così una città e un paese lasciato solo nelle mani della camorra, organizzazione criminale che appare solo in due scene, ma che in realtà alleggia per tutta la durata del film.
Il discorso sugli spazi è in realtà più complesso: in quest’opera gli ambienti riflettono anche il lato psicologico della vicenda. In tal senso, basti citare l’unico luogo non decadente del film: il boschetto nei pressi dell’edificio. Questo spazio rappresenta uno dei pochi momenti in cui i ragazzi si sentono liberi, in cui possono concedersi un “intervallo” dalla loro quotidianità, l’unico spazio in cui possono distrarsi e vivere in qualche modo l’adolescenza perduta, Salvatore bagnandosi sotto la pioggia, Veronica facendo una rapida corsa di sfogo. Il boschetto diventa così il luogo dell’adolescenza, della serenità e, soprattutto, della momentanea libertà.
Risulta così evidente che Di Costanzo firma un’opera in cui il lato intimo e quello sociale si fondono continuamente, realizzando un lavoro molto raffinato e profondo, che descrive in modo piuttosto inedito una realtà, quella di una città segnata dalla fortissima influenza della camorra, che cinema e letteratura di questi anni hanno più volte denunciato.
A contribuire al risultato finale ci pensano inoltre la bellissima fotografia di Luca Bigazzi e le interpretazioni di Francesca Riso e Alessio Gallo, bravissimi nella loro naturalezza.
In conclusione, L’intervallo è probabilmente l’ultimo esempio in ordine cronologico di un cinema italiano particolare che negli ultimi due o tre anni si è affermato con film interessanti e diversi tra di loro come ad esempio La bocca del lupo (P. Marcello, 2009) e Sette opere di misericordia (G. e M. De Serio, 2011) –, un cinema indipendente, tendente al reale, realizzato con pochi mezzi ma con molte idee, un cinema che, visti i suoi successi nazionali e internazionali, sembra destinato a tracciare la strada futura della nostra cinematografia.
(di Juri Saitta)