La cinquième saison è stato uno dei film del concorso più ignorati e meno apprezzati dalla critica di questa 69° Mostra del cinema di Venezia, a partire dalla prima proiezione per la stampa, dove le reazioni sono state complessivamente fredde e perplesse.
Peccato, perché l’opera di Peter Brosens e Jessica Woodworth, nonostante i suoi limiti e i suoi difetti, risulta particolarmente interessante e degna di nota per diversi aspetti.
Terzo capitolo di una trilogia sulla natura iniziata con Khadak (2006) girato in Mongolia e proseguita con Altiplano (2009) realizzato in Perù, La cinquième saison – ambientato in Belgio dove vivono i due registi – narra la storia di una piccola comunità agricola che si ritrova improvvisamente in un inverno permanente, dove la terra e il ciclo della vita sembrano essersi fermati in un eterno letargo. Con il passare dei mesi, gli abitanti del paesino daranno la colpa ad un forestiero giunto qualche tempo addietro.
Il racconto è chiaramente una metafora sull’aridità interiore dell’uomo che ha perso il contatto con la natura e sulla chiusura delle comunità umane, le quali accusano “l’altro” e il “diverso” di essere il colpevole dei loro problemi, facendone il capro espiatorio dei loro mali e dei loro limiti.
Se la trama e i suoi contenuti risultano complessivamente semplici, stilisticamente l’opera è caratterizzata dalla lentezza e dalla dilatazione del ritmo narrativo, dall’accurata ricerca fotografica e visiva (alcune inquadrature sono alquanto suggestive), dall’uso modico dei dialoghi e, soprattutto, dalla ricchezza e dalla densità dei simboli e dei simbolismi, che attraversano tutto il film, rendendolo in qualche modo più complesso e articolato.
I due autori ricorrono spesso all’uso delle metafore, specialmente visive: il paesaggio invernale e l’aridità della natura rappresentano la decadenza interiore e sociale dell’umanità; i primi piani minacciosi di alcuni animali simboleggiano la crescente ostilità della natura verso l’uomo; le maschere e i pupazzi rimandano alla falsità e, successivamente, alla violenza delle comunità.
L’aspetto più interessante del film risulta però l’unione – anche all’interno delle metafore – tra le atmosfere generalmente drammatiche e il tono talvolta umoristico e grottesco, presente soprattutto nelle scene iniziali.
In questo caso, la comicità non serve ad alleggerire un’opera certamente difficile: anzi, con la sua anima profondamente cinica e amara ha la funzione di sottolineare gli aspetti più paradossali, surreali e beffardi della vicenda, rendendo il film ancora più feroce nella sua cupezza decadente.
Purtroppo, l’opera difetta di un vero e proprio equilibrio tra i vari elementi in gioco e, di conseguenza, non sempre le varie metafore e il mix di dramma e ironia hanno esiti positivi. Così, accade che in certi momenti i registi eccedono nel grottesco rischiando di cadere nel ridicolo involontario (si veda la scena finale degli struzzi), mentre in altri si spingono un po’ forzatamente nella loro ricerca formale e simbolica, rendendo il film a tratti leggermente pretenzioso, si pensi per esempio ad alcuni ralenti un po’ intellettualistici e certamente evitabili.
In ogni caso, La cinquième saison risulta un’opera molto interessante e a tratti persino affascinante, sia per i contenuti che per la forte ricerca visiva e stilistica. Il lavoro di Brosens e Woodworth rappresenta un cinema intellettualmente vivo e vitale, anche nelle sue parti meno riuscite e nei suoi difetti, un cinema certamente a tratti ostico e impegnativo, che magari rischia di rinchiudersi nel “recinto” dei diversi festival, ma che ha il merito di riuscire ancora a stupire e a porre interrogativi, indipendentemente dal giudizio qualitativo che se ne può avere.
(di Juri Saitta)