I LaForche sembrano una normalissima famiglia della provincia americana (siamo in Ohio) impegnata come milioni di altre a inventarsi una vita accettabile nel pieno dell’imperversare della crisi economica che sta attanagliando il mondo. Il padre Curtis è un operaio in una compagnia mineraria, mentre la madre Samantha è casalinga e sarta part-time, dovendo dedicare buona parte del proprio tempo alle cure della figlia di sei anni, muta dalla nascita. Anche se arrivare alla fine del mese è un’impresa non da poco (la piccola Hannah ha costante bisogno di cure e mandarla a una scuola speciale costa parecchio), sembra che il terzetto sia felice e unito quanto basta per resistere alle bordate della vita. Sembra, ma dopo pochi minuti si intuisce che lo scenario vagamente idilliaco pur con tutte le difficoltà di contorno non è destinato a durare tanto a lungo.
Curtis inizia infatti a essere tormentato da visioni e incubi apocalittici sempre incentrati su una tempesta di violenza inaudita destinata a devastare ogni cosa al suo passaggio. E se all’inizio l’uomo riesce a tenere per sé queste allucinazioni, quando decide di impegnare risorse fisiche e materiali nella costruzione di un rifugio anti tutto sul retro della casa, la sua ossessione monomaniaca crea una tensione insopportabile sia all’interno della propria famiglia che successivamente tra i colleghi di lavorio, gli amici abituali e la comunità dei vicini di casa. Su tutto incombe poi un’ansia aggiuntiva di matrice genetica che non fa che aggiungere spunti di angoscia in una mente già disturbata dagli incubi che ne assillano i sonni: quando aveva soltanto trentacinque anni, alla madre di Curtis era stata diagnosticata una forma grave di schizofrenia. Avendo la stessa età e convinto che quanto gli sta accadendo altro non sia che l’anticamera della scissione di personalità capitata anche alla madre, Curtis decide di rivolgersi a una specialista, senza però che l’intervento porti a una qualche forma di miglioramento.
Tutt’altro. Gli incubi e le visioni spaventose si fanno così ricorrenti e devastanti che l’uomo finisce col lasciarsi impossessare in maniera totale dall’idea ossessiva del rifugio anti tempeste da costruire nel giardino sul retro della casa. Al punto da perdere il lavoro, compromettendo non solo la stabilità del proprio nucleo familiare, ma anche le poche chance che la figlia avrebbe di recuperare l’udito se potesse essere operata grazie all’intervento dell’assicurazione medica della compagnia mineraria per cui lavorava. Quando alla fine la tempesta però arriva davvero (non ostante Curtis passi tre quarti di pellicola a essere dileggiato da tutti finendo col diventare lo zimbello della comunità intera), sulle prime si ha l’impressione che la sua ossessione da inascoltata Cassandra fosse la sola lucida previsione degli eventi. Ma dopo che il terzetto trascorre una notte nel rifugio mentre fuori sembra che la Natura si stia scatenando, all’aprirsi dei portelli ermetici che rimettono i LaFroche in contatto col mondo lo spettatore è costretto a condividere l’infinita amarezza della sconfitta di chi ha lottato contro i mulini a vento della propria psiche terremotata, senza capire che erano solo quello e non la lucida follia del veggente.
Insignito – tra i molti altri rastrellati – del premio FIPRESCI come miglior pellicola delle sezioni collaterali a Cannes dello scorso anno, questo film enigmatico e difficile da catalogare è stato scritto e diretto da Jeff Nichols, acclamato regista del pluri-premiato Shotgun Stories del 2007, e pare sia incentrato su una serie di vicende autobiografiche capitate a Nichols stesso. Stando a quanto il regista e sceneggiatore ha infatti affermato, dopo solo un anno di matrimonio l’angoscia del futuro e di quello che avrebbe potuto capitare alla moglie e alla figlia lo aveva iniziato a ossessionare. Al punto da scrivere una sceneggiatura che ruota integralmente intorno a questa paura ancestrale di un’ignota minaccia destinata ad abbattersi ineluttabilmente su chi non si prepari ad affrontarne l’urto.
A prescindere da una lettura necessariamente esistenzialistica del tema trattato (visto che sembra sia da escludere un’interpretazione semplicistica che porti a vedere nel film una sottile presa in giro dell’ossessione meteorologica tipica dell’universo americano), Take Shelter non è improbabile che vada invece interpretato come una complessa metafora della condizione interiore ma anche materiale in cui buona parte della gente sta vivendo da qualche anno a questa parte. E cioè l’essere immersi in quella che dovrebbe essere una presunta normalità che invece si converte quotidianamente nell’angoscia costante di essere travolti da un presente tanto cupo da negare in se stesso ogni forma di futuro. Un terrore che diventa ossessione patologica e che, come nel caso del protagonista del film, arriva ad inquinare la vita familiare e le relazioni sociali al punto da portare a una pericolosa chiusura in se stessi, ma anche a inquietanti atteggiamenti di voluta negazione del reale.
Cupo ed efficacissimo (pur nella sua ieratica lentezza) nel veicolare un’angoscia montante che progressivamente si impossessa anche dello spettatore oltre che del protagonista del film senza più liberarlo, Take Shelter non è soltanto un ritratto dello smarrimento interiore cui l’acuirsi della crisi economica internazionale induce chi se ne lasci soggiogare. Forse dietro questa storia “piccola” di un uomo da poco che cerca di opporsi al terrore del futuro nascondendosi in un buco sottoterra c’è anche da vedere un ribaltamento dell’idea in virtù della quale ciascun individuo avrebbe infinite possibilità di realizzare il proprio destino. Un’idea che da sempre il cinema USA ha spacciato come il viatico verso il successo ottenuto attraverso l’abnegazione e il sacrificio: col mondo che sta andando ovunque a rotoli, anche il sogno americano è arrivato al capolinea. Ciò che ne resta è soltanto la sua peggiore degenerazione in incubo con le ansie di un domani incertissimo a sovrapporre le proprie ombre sulle sorti magnifiche e progressive che l’American Dream ha rappresentato per almeno tre generazioni.
(di Furio Fossati)