Se amate il cinema di razza capace di raccontare storie universali col respiro della grande letteratura evocando emozioni ancestrali con la sola forza delle immagini, allora non lasciatevi sfuggire per nessuna ragione quello che verrà di certo ricordato come il miglior film passato sui nostri schermi in questa stagione che sta volgendo alla fine.
Come spesso accade quando si ha a che fare con prodotti che provengono da orizzonti cinematografici molto diversi da quelli abituali (il nostrano, l’americano e, di recente, il francese), è bene però avvisare lo spettatore di prepararsi a un’esperienza visiva e narrativa del tutto dissimile da ciò cui si è abituati. I tempi sono dilatati (la pellicola dura infatti oltre due ore e mezza) e l’immagine è la chiave stessa della vicenda narrata, mentre mancano tutti gli orpelli esteriori e vacui che oggi servono per infiocchettare un film e renderlo appetibile al palato degli spettatori devastati da troppa televisione subita passivamente.
La vicenda è costituita da un’insolita indagine di polizia che si sviluppa nel cuore dell’Anatolia orientale (siamo molto vicino ai confini con l’Iran) nell’arco di una sola notte. Tre uomini – un commissario, un procuratore e un medico legale accompagnati da un gruppo di gendarmi – conducono un omicida reo confesso in giro per le desolazioni della steppa aspettando che l’accusato indichi loro in che punto abbia seppellito il cadavere dell’uomo cui ha tolto la vita. Dopo aver vagato per l’intera nottata e aver fatto alcuni incontri più o meno significativi, solo all’alba i tre riescono finalmente a trovare il punto in cui il cadavere è stato seppellito, trasportandolo poi nella piccola città da dove si sono messi in moto affinché venga riconosciuto dalla vedova e possa essere così effettuata l’autopsia.
Diretto dal talentuoso regista turco Nuri Bilge Ceylan, questo insolito poliziesco era stato per pubblico e professionisti del settore un autentico colpo di fulmine a Cannes 2011, dove infatti aveva ricevuto il Gran Premio della Giuria, premio questo che si era andato ad aggiungere ad altri due successi già ottenuti sulla Croisette dal cinquantatreenne regista e fotografo istanbuliota (vincitore nel 2003 dello stesso riconoscimento della giuria con l’autobiografico Uzak, e nel 2008 di quello ancora più prestigioso per la migliore regia grazie allo splendido Le tre scimmie).
Il suo è un poliziesco assolutamente anomalo perché l’indagine intorno al quale l’intero film ruota altro non è che un mero pretesto per far sì che i quattro protagonisti della storia (tre “buoni” e un “cattivo”) sfruttino l’occasione dell’indagine criminale per investigare all’interno del proprio io, scandagliandone le profondità più recondite alla caccia di ciò che la potenza del subconscio vi ha seppellito. Un viaggio negli abissi dell’anima destinato a portare alla luce verità nascoste e segreti seppelliti nel più profondo dell’io nell’attesa che la rimozione e il tempo facciano il miracolo di cancellarli per sempre. Ma la lunga estenuazione della notte e il dazio della conversazione forzata cui devono sottostare tra un depistaggio e l’altro porta i tre uomini (ma anche l’assassino, che tace quasi sempre come un personaggio muto della tragedia greca) a far riemergere queste realtà indicibili in un percorso involontariamente maieutico scatenato dal confronto verbale. E così, quando l’alba livida arriva a sostituire il suo abbraccio grigio al nero pesto della notte, lo spettatore si trova squadernate di fronte agi occhi le fibrillazioni di tre anime in pena: quella di un poliziotto la cui vita familiare è funestata da una malattia feroce toccata all’unico figlio, quella di un medico mutilato negli affetti dall’abbandono della moglie e quella del procuratore che si porta dietro il suicidio della moglie, toltasi la vita per la vergogna dopo aver scoperto che il marito l’aveva tradita in una notte di bagordi mentre lei era incinta.
Il tributo più che diretto ai due “C’era una volta..” (C’era una volta il West e C’era una volta in America) di Sergio Leone e, più in generale al suo cinema, non è contenuto soltanto nel titolo di questa straordinaria esperienza visiva e intellettuale, ma anche nel modo con cui Bilge Ceylan rende epica e archetipica la minima materia narrativa contenuta nella sceneggiatura e l’insistenza quasi maniacale su primissimi piani dei volti dei quattro protagonisti, sorta di cowboy della steppa alla ricerca della propria anima perduta e chiamati a sfidarsi in continui duelli in cui le parole e il loro peso brutale prendono il posto delle pallottole.
Parlando di volti, per celebrare appieno la potenza evocatrice di una pellicola come questa non si può non menzionare gli attori che interpretarono i quattro personaggi e prestano le proprie fisionomie e la propria professionalità ai ruoli loro affidati: si tratta di nomi sconosciuti al cinema internazionale, attori di un’intensità impressionante i cui volti parlano senza bisogno di parole e che, ad altre latitudini cinematografiche, sarebbero già star indiscusse pagate milioni di dollari. I dialoghi tra il medico e il procuratore sono così perfetti nella loro capacità di evocare per allusioni da essere destinati a entrare di diritto nei manuali di scrittura cinematografica. E lo stesso si può dire per le loro facce di sofferenza antica su cui Ceylan posa impietoso la macchina da presa mostrando il tormento interiore in primissimi piani di intensità a tratti insostenibile.
Come già successo in passato nei precedenti film che ne hanno reso celebre il nome trasformandolo in una specie di socio onorario del gotha dei premiati al Festival di Cannes, Nuri Bilge Ceylan pretende molto dallo spettatore ma in cambio gli regala due ore e mezza di balletti sull’abisso dell’anima, trasformando in un’opera-mondo in cui tutti gli esseri umani possono ritrovare un pezzetto del proprio io contorto quella che in mano ad altri sarebbe stato soltanto un buon poliziesco ricco di complesse sfumature psicologiche. Se è vero che il suo cinema non è ovviamente un cinema per tutti, è anche vero che tutti dovrebbero imparare da Ceylan una lezione molto severa che solo certi maestri autentici sono in grado di impartire: quando si ha la capacità di raccontare una storia (semplice quanto si vuole nella sua infinita complessità) mettendola al servizio dell’immagine e facendo sì che il connubio produca quell’effetto di magica illusione che il cinema dovrebbe sempre essere in grado di produrre, allora bastano pochi spiccioli – come in questo caso – per partorire il capolavoro.
(di Guido Reverdito)