Luis Miñarro (Barcellona, 1949) è il principale produttore “indi” di Spagna, e uno dei più importanti in Europa. A partire da una prolifica carriera nel mondo della pubblicità, fonda nel 1989 la sua casa di produzione, Eddie Saeta, tramite la quale produce 26 film in poco più di 15 anni. Con essi ha rappresentato la Spagna nei principali festival internazionali, vincendo a Cannes nel 2010 e ricevendo premi a Venezia, Sitges, Karlovy Vary, ma anche in Francia, Argentina, Messico, Taiwan, New York, Londra, Marocco ecc. Siamo andati a Barcellona ad incontrarlo, in occasione della rassegna che il prossimo Genova Film Festival dedicherà alla sua produzione.
Come nasce la tua passione per il cinema?
Avevo quattro anni quando mi portarono al cinema a vedere “Bambi” di Walt Disney (sorride). Rimasi terrorizzato ma al contempo affascinato dalle immagini animate. Da allora rimasi per sempre intrappolato e sedotto dal cinema. In seguito fondai alcuni cineclub, Ars e Mirador, e contribuii a formare cineclub oltre i Pirenei, a Perpignan e Ceret, dove si organizzavano cicli di proiezioni in cui le copie giungevano da Parigi incensurate, e potevamo finalmente vedere i film senza tagli: vedemmo Pasolini, Buñuel, i registi francesi della Nouvelle Vague. Ho anche scritto di cinema per una rivista che si pubblica tuttora, “Dirigido”.
Come comincia il tuo percorso come produttore?
Cominciai lavorando in pubblicità per varie agenzie multinazionali: McCann-Eriksson, J. Walter Thompson, Saatchi&Saatchi. In seguito divenni indipendente, fondai una compagnia, Eddie Saeta ed iniziammo a produrre noi stessi gli spot non solo per il mercato della Spagna, ma anche per Italia, Belgio, Francia, Stati Uniti ecc. Allora il mercato della pubblicità era in piena espansione, e ciò ci permise di mettere da parte un capitale sufficiente per cominciare, a partire dal 1995, a investire denaro nella produzione di film, che era l’obiettivo che ci eravamo prefissati dall’inizio. Il primo tentativo riuscì bene: producemmo Le cose che non ti ho mai detto di Isabel Coixet negli Stati Uniti, che fu presentato a Berlino. Questo film permise alla regista di affermarsi come autrice e cominciare la sua carriera, ed a noi di continuare nella produzione di film.
Quindi produrre cinema era qualcosa che avevate previsto fin dall’inizio.
Il cinema era un obiettivo, qualcosa a cui tendere, una speranza: è sempre stato un desiderio, la mia passione, ciò che sempre mi è piaciuto. Perciò metto tutto me stesso nella produzione.
Come scegli un progetto? È più importante la sceneggiatura, il regista, l’idea, il livello di definizione del progetto, la possibilità di svilupparlo in parte con l’autore?
Per me la sceneggiatura non è la parte più importante. A volte ho cominciato un film in cui non c’era una vera e propria sceneggiatura, ma solo un’idea: ad esempio Il Canto degli Uccelli di Albert Serra. A volte dipende dall’intuire o meno se dietro ad un idea c’è qualcosa di potente, e soprattutto dipende dal rapporto che si instaura con il regista. Poiché normalmente in questo tipo di film il regista è anche lo sceneggiatore, è una persona che mette nel progetto la sua vocazione artistica. Per me è importante identificarmi con ciò che faccio, non produrrei un film qualunque, e da ciò deriva forse il poter intuire una identità, un filo sottile che unisce i film che ho prodotto, che a volte sembrano quasi dialogare tra di loro. Prendiamo ad esempio En la Ciudad de Sylvia di Guerin e Singolarità di una Ragazza Bionda di De Oliveira: due film che non hanno nulla in comune, eppure vi è in entrambi i film uno sguardo simile, un punto di vista comune sulla vita, e sul cinema.
Quindi per il fatto che sia rintracciabile una matrice comune, si può dire che esista una certa paternità “autoriale” da parte del produttore? Dovuta alla relazione col regista, con l’idea del film?
Si potrebbe dire di sì, nel senso che il produttore sceglie il progetto in cui impegnarsi. Io parto anche da un’altra premessa: non girare più di due film con lo stesso regista, per impedire che si comprometta la relazione regista-produttore, e per darmi anche la possibilità di lavorare con altri autori, permettendo di arricchirmi a livello umano, conoscendo altri mondi, altri modi di comunicare, altre personalità.
Che tipo di relazione si instaura con il regista sul set: intervieni, ti autocensuri, apporti idee e suggerimenti?
Sono convinto che la cosa più importante sia mettere in chiaro ogni dettaglio prima di girare. Al contrario sto molto poco sul set vero e proprio, in alcuni film addirittura non vi ho messo piede. Non mi sembra opportuno supervisionare l’attività di qualcuno in cui hai riposto la fiducia. Intervengo solo se c’è qualcosa che va fuori posto, per impedire che i costi lievitino. L’altro momento in cui intervengo ed esprimo le mie opinioni è nel montaggio. Sono comunque sempre rispettoso nei confronti del regista, cercando di non interferire mai nel suo processo creativo.
Hai anche diretto due film come regista…
Si ho girato due film, ma tardi (nel 2009, n.d.A.), credo per una questione di prudenza, poiché sentivo che già stavo facendo il mio come produttore. Però un bel giorno ho sentito il bisogno di esprimermi attraverso la macchina da presa. Iniziai in modo molto semplice e spontaneo, decidendo di fare un film sui miei genitori, Familystrip, e questo mi ha infuso coraggio per continuare, per osare.
Che cos’è per te il cinema, e cosa non è cinema.
Mi interessa il cinema dal punto di vista del concetto di arte, e che in qualche modo può smuovere la coscienza, che serva come strumento di critica, di contrasto, che esprima una visione della vita: che sia in qualche modo uno strumento di conoscenza dell’animo umano. Allo stesso modo mi interessa un cinema che non sia prevedibile, che lasci spazio allo spettatore perché possa elucubrare sul film, darne una propria rilettura. Mi interessano i film da cui si possono trarre differenti visioni, che promuovano anche elementi di discussione, o semplicemente che esprimano un ideale di bellezza, senza ricercare nessuna componente intellettuale, razionale, o politica.
È più “attuale” un attore di fiction, cioè un personaggio, o il protagonista di un documentario, una persona?
Il cinema che mi interessa è un incrocio di generi, è finzione ma in esso non si riesce a riconoscere il confine tra un documentario e la finzione pura. Alcuni dei film da me prodotti appartengono a questo filone, ad esempio Honor de Caballería di Albert Serra, o Liverpool di Lisandro Alonso, Uncle Boonmee di Apitchapong o lo stesso En la Ciudad de Sylvia. Se dovessi scegliere in maniera più radicale l’espressione più rappresentativa dei nostri tempi, sceglierei il documentario, poiché mi sembra che aggiunga un tocco di verità, di connessione con la realtà che la finzione non possiede.
(di Emanuele Varone)