Era partito dalla Liguria giovanissimo, per andare a Roma a fare cinema. E il cinema, Nicolò Ferrari lo ha fatto per sessant’anni filati. Ha diretto documentari, ha realizzato due lungometraggi, ha lavorato con Rossellini, Zavattini e tanti altri autori del momento d’oro del cinema italiano. Fino agli ultimi giorni di vita, che lo hanno visto ancora in prima linea, fedele a quell’idea di cinema fortemente etica che lo aveva sempre guidato.
Quest’estate, a luglio, Camogli lo ricorderà nel corso di una serata all’arena estiva. Nicolò Ferrari (Nicola per gli amici) era infatti un camoglino purosangue, nato nel 1928 da una famiglia tutta composta da gente di mare. Aveva studiato al liceo Doria di Genova, aveva fatto la Resistenza in Val Trebbia, aveva partecipato nel 1945 alla nascita del primo Film Club genovese. Finché, nel 1947, decise di trasferirsi a Roma insieme all’amico Enrico Rossetti, appena nominato segretario nazionale della Federazione dei Circoli del Cinema.
Da lì comincia la sua storia di cineasta, destinata a durare oltre mezzo secolo. Lavora col produttore genovese Alfredo Guarini, quello di Le mura di Malapaga, che all’epoca è una figura centrale del cinema italiano. E’ al fianco di Rossellini per l’episodio di Siamo donne e per Viaggio in Italia. Collabora spesso con Cesare Zavattini e con Romolo Marcellini, scrive varie sceneggiature, tra cui quelle per i peplum La vendetta di Ercole e Ercole alla conquista di Atlantide di Vittorio Cottafavi (con lo pseudonimo di Archibald Zounds jr.). Progetta in quel periodo anche diversi film d’ambientazione ligure: una versione della Bocca del lupo, da Remigio Zena, oppure una storia marinaresca per Guarini, ma nessuno di questi progetti va in porto.
La grande occasione della carriera è costituita da Laura nuda, con cui nel 1961 esordisce nel lungometraggio. Un film ambizioso, che guarda alla società italiana dal punto di vista femminile, come si cominciava a fare con sempre maggiore insistenza in quegli anni. Un film “d’autore” che viene accolto dalla stampa come testimonianza di una Nouvelle Vague italiana, addirittura destinato a rappresentare l’Italia al festival di Cannes. Un film, però, che si scontra immediatamente con la censura, all’epoca ancora fortissima in Italia.
Tutta colpa dell’argomento che affronta, oltre che del modo in cui lo racconta. Georgia Moll vi interpreta infatti una ragazza della buona borghesia soffocata dalle convenzioni di quella società perbenista cui vuole ribellarsi, ma di cui al tempo stesso fa parte.
Finisce così per sposarsi controvoglia, abbandonandosi poi ad avventure autodistruttive, testimone delle ipocrisie di genitori, amiche, dello stesso marito. Lino Micciché lo definisce «uno dei più notevoli ritratti femminili del cinema italiano degli anni ’60». Ma la censura non infierisce solo sui nudi e sulle avventure extraconiugali della protagonista: uno dei tagli richiesti riguarda infatti la scena in cui «Laura si confida con un’amica dicendole di temere che, sposando Franco, perderà la sua libertà», dove ad essere in ballo sono proprio i dubbi mossi all’istituzione matrimoniale.
Rispondendo a un questionario di Film 1962, Ferrari dice: «Per ora mi piacerebbe raccontare storie di borghesi, solo perché mi sembra che dalla classe borghese sia ancora in gran parte condizionata la nostra società». Per vedere in sala un suo secondo film bisogna però aspettare nove anni: vale a dire fino all’uscita di Mio Mao – fatiche e avventure di alcuni giovani occidentali per introdurre il vizio in Cina (1970). Anche in questo caso siamo davanti alle inquietudini e alle contraddizioni giovanili, al rifiuto confuso della società da parte della nuova generazione. Solo che in meno di un decennio è radicalmente cambiato lo scenario sociale italiano, e con esso il modo di raccontarlo.
Stavolta il protagonista si chiama Giuda, ed è un giovane rivoluzionario che trascina i suoi amici in un’impresa folle: recarsi in autostop in Cina per strappare la rivoluzione maoista al suo puritanesimo, introducendovi il vizio. «Aiuteremo tutti a scoprire e coltivare i loro vizi, così ognuno sarà veramente padrone di se stesso. La rivoluzione così sarà salva e potrà vincere anche in occidente» dice. Ma il viaggio si rivelerà catastrofico, i componenti del gruppo cederanno l’uno dopo l’altro, lo stesso Giuda verrà respinto dalle Guardie Rosse appena mette piede in Cina.
Alle forme più chiuse e rigorose di Laura nuda, film su una società soffocante e claustrofobica, Mio Mao contrappone una libertà narrativa e formale al passo coi tempi nuovi e una società smarrita. Ma qualcuno resta fin troppo frastornato, anche perché il racconto, più ancora che Laura nuda, ha un atteggiamento complesso nei confronti dei suoi personaggi, di comprensione e distacco critico al tempo stesso. E’ un film sull’ideologia, ma non è un film ideologico: cosa sempre disorientante. Proprio i cattolici delle Segnalazioni Cinematografiche (solitamente molto conservatori) lo accusano addirittura di aver fatto una satira sommaria della contestazione: «ragioni più o meno serie della protesta giovanile finiscono per essere accomunate in un’unica, qualunquistica condanna»!
Da allora, Ferrari non ha più realizzato lungometraggi di finzione. Resta però in gran parte da riscoprire la produzione di documentarista, che attraversa tutta la sua vita. A cominciare dagli anni ’50: I bambini ci giuocano, prodotto da Zavattini e De Sica (1953), Uomini in più (1955), l’inchiesta tv Perché i vecchi non siano soli (1956) con una sequenza presso la Casa di Riposo per marinai di Camogli… E la Liguria? In un ricordo degli anni ’80, Ferrari è piuttosto sarcastico: «Vivo a Roma, ma se cammino per strada a Parma o a Bologna e in altre città italiane e fuori d’Italia, incontro sempre qualcuno da salutare e tutt’e due abbiamo urgenza di parlare e stare insieme. A Genova no. Forse è colpa mia, attraverso le strade nelle ore sbagliate».
Ma Genova tornerà prepotentemente con il G8 del 2001, quando Ferrari sarà tra gli autori di Un mondo diverso è possibile, ideato dall’amico Citto Maselli. Non a caso, un film collettivo di militanza e di resistenza morale, come tutto il suo lavoro degli ultimi anni: fino all’estremo Nella terza guerra mondiale contro i poveri (2006), film sulla marcia per la pace montato quando già la malattia lo stava assediando.
(di Renato Venturelli)