Il successo di The Artist e Hugo Cabret è solo un evento isolato, momentaneo e senza particolar significato oppure è un fatto da tenere in considerazione per valutare lo stato del cinema contemporaneo?
Indipendentemente dall’opinione positiva o negativa che si può avere sul risultato estetico delle due opere, si dovrebbe constatare che entrambe hanno segnalato un bisogno che il cinema sembra attualmente avere: ritrovare un po’ di quella creatività linguistica perduta ritornando e ricordando le sue origini, proprio negli anni della diffusione del 3D e della svolta digitale.
L’accostamento tra cinema dei pionieri e tecnologie d’avanguardia risulta audace, è vero, ma solo fino a un certo punto.
Le nuove tecnologie e il cinema muto possono infatti essere accumunati dalla volontà di meravigliare e stupire lo spettatore con la forza delle sole immagini in movimento. Il cinema muto, anche nelle sue espressioni più complesse e intellettuali, portava sempre con sé la volontà di meravigliare e di coinvolgere anche emotivamente lo spettatore – si veda ad esempio il concetto di pathos in Ėjzenštejn e nel cinema sovietico ad egli contemporaneo.
Un altro elemento che le due cinematografie possono avere in comune è lo spirito ludico, giocoso e curioso di certi spettatori: il pubblico che si reca al cinema a vedere i primi film in 3D non ricorda, anche se vagamente, quello che andava ad assistere alle pellicole dei Lumiere e di Méliès nelle fiere e nei baracconi?
È in questa atmosfera culturale che s’inserisce la rassegna organizzata dalla Cineteca D. W. Griffith a Palazzo Rosso. La retrospettiva prevedeva la proiezione di cinque film durante il mese di maggio: il dadaista/surrealista Paris qui dort (R. Clair, 1923), l’avventuroso ed esotico Le quattro piume (M. C. Cooper, L. Mendes, E. B. Schoedsack, 1929), il capolavoro comico Io e il ciclone (B. Keaton, 1928), il documentario-omaggio ad uno dei pionieri un po’ dimenticati della storia del cinema In compagna di Max Linder (R. Clair, M. Linder, 1963) e, infine, una serie di cortometraggi di Georges Méliès, in cartellone per il 19 maggio, in apertura della Notte dei musei – evento rimandato a causa del tragico fatto di Brindisi.
In occasione della rassegna abbiamo intervistato Massimo Patrone, gestore della Griffith e organizzatore della manifestazione.
La prima domanda verte inevitabilmente sulla riscoperta del cinema muto, con i casi già menzionati di The Artist e Hugo Cabret, recentissimi successi al botteghino e pluripremiati agli Oscar. Quali sono i motivi di questo ritorno al passato?
Sono rimasto molto sorpreso dal fatto che siano usciti questi due film, soprattutto The Artist, di un regista a me sconosciuto (Michel Hazanavicius, ndr), ma che dimostra di avere una profonda conoscenza del cinema muto. L’altro, beh, si conosce meglio… Hugo è un vero e proprio omaggio al cinema “dimenticato”, ma da Scorsese c’era da aspettarselo: è un grande cultore del cinema e della sua storia. Non sarà il suo ultimo film, ma questo tributo a Méliès l’ho visto quasi come un messaggio d’addio, un regalo, un omaggio al cinema.
Il successo di questi due film, comunque, è sconcertante… arrivo a domandarmi se non possa significare, in un certo senso, la fine del cinema commerciale. Due film del genere vincono – meritano – gli Oscar? Beh, sembra un po’ il canto del cigno: come le persone anziane tornano ad essere bambine, il cinema torna al muto, per poi scomparire. Non voglio essere catastrofista, ma la situazione è questa.
Per quanto ci riguarda, comunque, abbiamo sfruttato l’onda lunga del loro successo per organizzare questa rassegna sul muto. È anche una questione di pubblicità: interessare il pubblico al cinema è sempre più difficile… Si pensi a quanto fatto in occasione del centenario del cinema: poco, pochissimo. Metropolis e Chaplin. Icone. E basta. Parlo sia a livello genovese che a livello nazionale, europeo o mondiale… si è fatto di più solo al MoMA e alla Cinematheque: non è sufficiente.
Oggi si conosce appena Charlot, qualcuno cita La corazzata Potemkin – senza neppure averlo visto – e si pensa che il cinema muto sia solo quello. Invece bisognerebbe conoscere prima di tutto i corti, perché è lì che si sviluppa, e poi si evolve, il linguaggio cinematografico, ed è già con i corti che nascono i generi: umoristico, drammatico, storico, film in costume, film esistenziale, gangsteristico… Per la cronaca, Griffith li ha toccati – per non dire inventati – tutti.
Il film nasce inevitabilmente “corto”, e per questo abbiamo voluto rilanciare altri personaggi, altri protagonisti, come Keaton, appunto Méliès, e le grandi comiche di Max Linder. Bisogna riscoprire il vero cinema dei pionieri, quelli che venivano considerati dei folli dai contemporanei e poi sono diventati leggende. A Los Angeles, negli anni ’10, era vietato affittare la stanza ai possessori di animali domestici ed agli attori: ebbene, è da questi personaggi che bisogna cominciare. Qualcosa tipo Vecchia America di Bogdanovich, non a caso uno dei pochi cineasti contemporanei – con Coppola – laureati in Storia del cinema.
Nella programmazione della rassegna spicca per rarità il documentario su Max Linder: potresti parlarci brevemente del film e dell’attore? Secondo te perché oggi Linder è stato praticamente dimenticato?
Questo non lo so. D’altronde anche io, fino a qualche tempo fa, lo conoscevo solo per sentito dire.
Potrebbe aver influito la fine drammatica che ha fatto: si dice che uccise la moglie e si suicidò, lasciando una figlia di due anni, Maude – quella che, insieme a René Clair, ha realizzato il meraviglioso documentario.
È poco considerato ma è un genio, fidatevi: novità, spontaneità, una fantasia estrema, impossibile, giocherellona… Ha inventato il surrealismo cinematografico, ben prima di Un chien andalou di Buñuel e Dalì del ‘29.
Giustappunto: dalla comicità surreale ed acrobatica di Keaton o dello stesso Linder, alle fantasie fantascientifiche di Méliès e dadaiste di Clair, fino all’esotismo de Le quattro piume, la rassegna sembra in qualche modo legata al meraviglioso e all’antirealismo. È stata una scelta voluta? Secondo te, quanto il meraviglioso è legato al cinema muto e al cinema in generale?
Il “primo” cinema è legato al meraviglioso nella misura in cui si provava, con quella scatoletta magica, a far nascere emozioni nuove, a ricreare un mondo. Penso agli anni ‘20, prima che il surrealismo cinematografico venisse codificato: ci sono i “filmini” sperimentali degli esponenti delle cosiddette avanguardie – in Europa, per esempio, Dulac e Richter –, nei quali veniva portato all’estremo il tentativo di vedere immagini accelerate o in qualche modo alterate, senza contare che già Renoir e Max Linder avevano scoperto il rallenty.
I primi anni del cinema sono naturalmente i più innovativi, e abbiamo l’obbligo di rispolverarli. C’è un’altra rassegna che vorrei imbastire: “Le comiche prima dei comici”; abbiamo dei filmini, realizzati prima ancora dell’avvento di Linder, che sono veri e propri pezzi di comicità…
Sappiamo che tra giugno e luglio la Cineteca proietterà, al multisala America, una retrospettiva sul noir: potresti parlarci di questa iniziativa?
Cogliamo l’occasione del centenario della nascita di diversi registi: Michelangelo Antonioni, Samuel Fuller, André de Toth, Gene Kelly, Georges Franju ed altri. All’America proietteremo un film o due per ciascuno di loro, e poi, con Tragedia a Santa Monica di de Toth, ci attaccheremo al filone noir. L’idea l’abbiamo presa da una rassegna della Cinematheque dello scorso anno, intitolata “Perle nere”. Proiettarono, tra le altre, due pellicole del ‘49 che abbiamo anche noi: La luce rossa di Roy Del Ruth e Chicago, bolgia infernale di William Castle. Ecco, quest’ultimo film sarà in rassegna: è rarissimo.
Proporremo anche film più conosciuti, ma altri sono delle vere e proprie chicche. Vi confesso che alcune pellicole non le ho ancora viste neppure io, ma a questo punto aspetto di guardarle in sala.
Grazie a queste retrospettive e ad iniziative simili si ha l’occasione di rivedere in sala, e in “condivisione”, film molto rari o reperibili solo nel mercato dell’home video. Quanto la dimensione della proiezione pubblica al cinema è importante e perché la si sta perdendo?
Non basterebbe il tempo di un’intervista per rispondere a questa domanda. Credo che la responsabilità principale vada alla tecnologia: la tv, i cellulari di ultima generazione, i pc… ormai andare al cinema per vedere una cosa che si può guardare in casa, sul treno, o chissà dove, è diventato superfluo. Il problema, però, è che così facendo si trasforma in mera informazione quella che invece dovrebbe essere un’esperienza a tutto tondo. Per vedere un film bisogna vederlo sul grande schermo. È un fatto di dimensioni: bisogna essere soggiogati, schiacciati dalla storia. Se la si vede su un computerino siamo noi a dominarla, siamo più grandi di lei, e proviamo poche emozioni. Non c’è nulla da fare, ci sono cose che sul grande schermo si notano ed in altri contesti no: espressioni del volto, sguardi, sequenze particolari…
I film vanno visti innanzitutto al cinema. In tv si possono al massimo ripassare.
Purtroppo, però, oggi andare al cinema è rimasto un vizio di pochi. Hanno grande successo i blockbuster stile Avatar, ma è anche vero che di anno in anno i numeri delle presenze in sala precipitano: lo scorso negli Stati Uniti sono stati venduti 50 milioni di biglietti in meno rispetto al precedente.
Anche per quanto riguarda la retrospettiva la situazione sta degenerando. Il vero nemico da battere è la videoproiezione domestica, ma penso sia una montagna troppo alta da scalare. Non ci si può fare nulla, ormai è una cosa radicata. Che dire, speriamo in bene.
Ultima curiosità: oneri ed obblighi logistici nella gestione di una cineteca.
Il punto più importante è che una cineteca dovrebbe avere una sala fissa tutto l’anno, cosa che a Genova non esiste. Con una sala fissa ci si organizza meglio e si programma meglio: pensate che ad oggi io non so quali saranno gli eventi successivi alla rassegna sul noir, né dove questi si terranno. Forse faremo qualcosa dopo il Festival di Venezia, ma è tutto ancora da vedere.
Ad ogni modo, bisogna puntare sulla sala stabile, con un appuntamento fisso e due o tre repliche per volta: la riproposizione è necessaria, e dare la possibilità allo spettatore di scegliere tra più date è un passaggio fondamentale. Un lusso che però non ci possiamo ancora permettere.
(di Matteo Faccio e Yuri Saitta)