CHI E’
Lars Trier nasce a Copenaghen il 30 aprile 1956 da genitori nudisti, comunisti e atei. Sulla sua infanzia circolano molte leggende, in gran parte alimentate da lui stesso. Certo il “von” fu aggiunto al cognome da lui stesso nei primi anni Settanta. Forse grazie all’intercessione di uno zio già introdotto nell’ambiente si accosta giovanissimo al cinema e alla televisione. Il 20 marzo 1995 legge a Parigi (al Theâtre de l’Odéon, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario del cinema) il manifesto Dogma 95 di cui è uno dei quattro firmatari e che gli dà notorietà internazionale. Famoso per le sue molte fobie (rifiuto di viaggiare in aereo, ossessioni ipocondriache), Lars von Trier considera il connazionale Dreyer il suo primo e vero maestro.
FILMOGRAFIA
Cortometraggi – 1967: Viaggio a Squashland (Turen til Squashland) – 1968: Buonanotte, tesoro (Nat, skat) – 1969: Una brutta esperienza (En rovsyg oplevelse) – Una partita a scacchi (Et skakspil) – 1970: Perché fuggire da qualcosa che sai di non poter fuggire? (Hvorfor flygte fra det du ved du ikke kan flygte fra?) – 1971: Un fiore (En blomst) – 1977: Il giardino delle orchidee (Orchidégartneren) – 1979: Menthe, la ragazza felice (Mynthe – Der lyksalige) – 1980: Notturno (Nocturne) – 1981: L’ultimo particolare (Den sidste detalje) – 1982: Immagini della liberazione (Befrielsesbilleder) – 2007: Occupation (ep. di Chacun son Cinèma) – 2010: Dimension 1991-2024.
Miniserie Tv – 1994: L’aula dell’insegnante (Laerervaerelset) – The Kingdom, il regno ((Riget) – 1997: The Kingdom 2 (Riget 2).
Lungometraggi – 1984: L’elemento del crimine (Forbrydelsens element) – 1988: Epidemic – Medea (film Tv) – 1991: Europa – 1996: Le onde del destino (Breaking the Waves) – 1998: Idioti (Dogme#2: Idioterne) – 2000: D-Dag (coregia Thomas Vinterberg) – Dancer in the Dark – 2003: Dogville – I cinque ostacoli (De fem benspænd) – 2005: Manderlay – 2006: Il grande capo (Direktøren for det hele) – 2009: Antichrist – 2011: Melancholia – 2012: The Nymphomaniac (annunciato).
Sceneggiature per altri: 2005: Dear Wendy di Thomas Vinterberg – 2007: Erik Nietzsche – De unge år di Jacob Thuesen.
IL MANIFESTO DI DOGMA
Dogma 95 è un collettivo di registi cinematografici fondato a Copenaghen nella primavera del 1995.
Il suo scopo preciso è opporsi a certe derive del cinema contemporaneo.
Dogma 95 è un’azione di salvataggio! Nel 1960 si è raggiunto il limite! Il cinema era morto e bisognava farlo risuscitare. La Nouvelle Vague, attraverso slogan di individualismo e libertà, ha prodotto certi capolavori. Ma il cinema antiborghese è diventato borghese, perché si fondava sulla percezione borghese dell’arte. Il concetto di autore era una versione borghese del romanticismo e, in quanto tale, falso!
Agli occhi di Dogma 95, il cinema non è individualista!
Oggi la tempesta tecnologica imperversa e il risultato sarà la democratizzazione definitiva del cinema. Per la prima volta, chiunque può fare un film. Ma più i media diventano accessibili, più si fa importante l’avanguardia. E non è un caso che la parola avanguardia abbia una connotazione paramilitare. Perché la risposta è la disciplina… Dobbiamo fare dei film in uniforme, perché il film individualista è decadente per definizione!
Dogma 95 si contrappone al cinema individualista con una serie di regole definite “voto di castità”.
Nel 1960 si è raggiunto il limite! Si diceva che il cinema fosse divorato dall’artificio, ma in seguito l’utilizzo di questi artifici si è moltiplicato.
‘L’”obiettivo supremo” dei cineasti decadenti è ingannare il pubblico.
Dobbiamo esserne fieri? È tutto quello che abbiamo messo da parte in questi cento anni di cinema? Illusioni con cui comunicare emozioni? Grazie all’inganno di un artista isolato?
La prevedibilità (la drammaturgia) è il vitello d’oro attorno cui danziamo.
Giustificare l’azione attraverso la vita interiore dei personaggi sembra molto complicato e non è “arte alta”. Mai come oggi l’azione superficiale e i film superficiali hanno ricevuto tanti elogi.
Il risultato è sterile, un’illusione di pathos e di amore.
Per Dogma 95 il cinema non è illusione!
Ai giorni nostri imperversa la tempesta tecnologica: l’artificio è elevato al rango di divinità. Ricorrendo alla nuova tecnologia chiunque, in qualunque momento, può spazzare via gli ultimi sussulti di verità nella stretta soffocante della spettacolarità.
Le illusioni sono ciò dietro cui il cinema si può nascondere.
Dogma 95 combatte il cinema delle illusioni con una serie di regole indiscutibili note con il nome “voto di castità”.
IL VOTO DI CASTITA’
Io giuro di sottomettermi al seguente corpo di regole delineate e confermate da Dogma 95:
1) – Le riprese devono aver luogo in esterni. Non devono essere utilizzati scenografie e set (se è necessario per la storia un particolare elemento scenografico, si deve scegliere una location in cui è già presente quell’elemento).
2) – Il suono non deve mai essere prodotto separatamente dalle immagini e viceversa (la musica non deve essere usata a meno che non si senta nell’ambiente in cui si svolge il film).
3) – La macchina da presa deve essere a mano. Sono concessi tutti i movimenti (e l’immobilità) che si possono tenere a mano (il film non deve svolgersi dove è piazzata la cinepresa; sono le riprese che devono avere luogo dove si svolge il film).
4) – Il film deve essere a colori. Non sono concesse illuminazioni speciali (se la luce è insufficiente per impressionare la pellicola, la scena deve esser tagliata, o si può attaccare un singolo faretto alla m.d.p.).
5) – Trucchi ottici e filtri sono proibiti.
6) – Il film non deve contenere azioni superficiali (omicidi, armi, etc, non devono essere ripresi in nessun caso).
7) – E’ proibita l’alienazione temporale o geografica (cioè il film deve avere luogo qui e ora).
8) – Non sono accettati film di genere.
9) – Il formato del film deve essere 35mm standard.
10) – Il regista non deve essere accreditato.
Inoltre, come regista giuro di astenermi dal gusto personale! Non sono più un artista. Giuro di non creare un’opera perché ritengo l’istante molto più importante dell’insieme. Il mio fine supremo è costringere la verità a uscire dai miei personaggi e dall’azione in sé. Giuro di fare ciò con tutti i mezzi disponibili e a discapito di ogni considerazione di buon gusto o di carattere estetico.
Pronuncio così il mio “voto di castità”.
Copenaghen, Lunedì 13 Marzo 1995
Letto pubblicamente a Parigi, Théâtre de l’Odéon, il 20 marzo 1995, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario del cinema.
LARS VON TRIER: IL CINEMA E LE REGOLE
Lars von Trier o delle regole. E del piacere di trasgredirle. Considerato dal marxista Edoardo Sanguineti «uno dei giganti del cinema» (Sanguineti’s Song, Feltrinelli 2006), ma espulso dall’ultimo Festival di Cannes con l’accusa di apologia del nazismo, il regista danese ha fatto della progettualità ideologica la chiave principale del suo cinema, individuando proprio nel porsi delle regole da seguire la via principale per portarvi all’interno un soffio di novità capace di fargli ritrovare l’innocenza perduta. È nato così “Dogma 95”, il manifesto non a caso scritto e reso pubblico nell’anno in cui in tutto il mondo si celebrava il centesimo anniversario della nascita del cinema.
Concepito nel periodo in cui, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, sembravano non esserci più i movimenti ideologici, “Dogma” contiene toni, obblighi e prescrizioni, che non hanno nulla da invidiare ai più autoritari manifesti delle avanguardie storiche del primo Novecento. «Un manifesto, però, fatto per essere trasgredito, dal suo autore in primis», come opportunamente sottolinea ancora il suo “fan” Sanguineti in un intervista rilasciata nel 2009 al “Venerdì” di “La Repubblica”. A ben vedere, infatti, Lars von Trier è da sempre un maestro nell’arte scandalosa di imporre delle regole, che poi è il primo a non rispettare. Ma forse proprio per questo per lui le regole sono così necessarie, rappresentando l’argine entro il quale incanalare la scommessa della creazione artistica, la quale per definizione sceglie poi liberamente i propri percorsi.
Paladino dell’anonimato dell’opera cinematografica («Il regista non deve essere accreditato», recita il decimo comandamento di “Dogma”), von Trier è però oggi riconosciuto come uno degli autori più personali del cinema mondiale. E certo non ha fatto mai nulla perché questo non accadesse: sia a proposito della dozzina di lungometraggi da lui sinora realizzati, sia anche in relazione alle sue molto apprezzate miniserie televisive (con The Kingdom in prima fila), così esplicitamente segnate da un’impronta autoriale. Sostenitore delle riprese con la camera a mano, egli usa comunque sovente (ad esempio in Dogville e soprattutto nel suo “quasi” seguito Manderlay) lunghi piani fissi, all’interno di uno spazio scenografico dichiaratamente astratto (trasgredendo così il terzo comandamento di “Dogma”) che evoca un tempo e una geografia in fin dei conti indeterminati, nonostante l’uso delle didascalie e delle cartine geografiche, in esplicita contraddizione con il settimo comandamento del suo manifesto che, a ben vedere, non ha rispettato neppure in Idioti il quale apparentemente sembra essere il suo film più “Dogma”, anche se è stato interamente girato in video, con buona pace del suo nono comandamento che prescrive l’uso esclusivo del 35mm standard.
Regista scomodo e contraddittorio, sovente sgradevole nelle sue scelte più estreme, Lars von Trier è autore di film che vanno analizzati per quello che sono sullo schermo, senza assolutamente cadere nella tentazione di metterli in rapporto con le regole che pur li sottendono e, soprattutto, con ciò che di loro dice o ha detto il loro artefice. Solo così, molto più che nel suo “gioco a scandalizzare” che tanto piaceva a Sanguineti («Oggi c’è ancora chi sa giocare fino a scandalizzare? Al cinema lo fa molto bene Lars Von Trier, un grande» egli ebbe occasione di dichiarare a “Il Sole – 24 Ore”), von Trier rivela, nonostante tutto, di essere un artista di prima grandezza. Un autore di film che programmaticamente dividono gli spettatori, esibendo come una bandiera idee estetiche e/o narrative sempre molto forti. Siano queste rappresentate dalla struttura da detective story che, in preventiva trasgressione all’ottavo comandamento di “Dogma”, von Trier mette in scena nel suo primo lungometraggio (L’elemento del crimine) o dal finto naturalismo di Epidemic, che mima i toni e le cadenze di “una storia vera”. Oppure, risultino, quelle idee, rintracciabili nel curioso e umoristico cocktail di melodramma e di thriller storico (si parla di nazisti e di organizzazioni tese a farne rivivere l’ideologia) che si sintetizza in Europa (girato in buona parte in bianco e nero, nonostante il quarto comandamento di “Dogma”) o nell’appassionato e misticheggiante erotismo che sottende i fotogrammi di Le onde del destino, il primo folgorante successo internazionale del regista. O, ancora, emergano dall’eccentrico comportamento dei finti ritardati mentali e giocosi nudisti protagonisti di Idioti, cui ha fatto seguito il trittico “statunitense” rappresentato dal musical Dancer in the Dark e dalla struttura a capitoli – coniugati tra teatro, lettura e cinema – di Dogville (con la bellissima ultima scena tra Nicole Kidman e James Caan) e di Manderlay, in cui si affronta in modo molto originale il tema del razzismo tra bianchi e negri; sino ad arrivare a quella curiosa, e sgradevole commedia che è Il grande capo, la cui comicità nasce in gran parte dall’esibita rivalità tra islandesi e danesi o, anche, ai contorti arrovellamenti erotico-naturalistici di Antichrist, che resta forse il film più ermetico di von Trier.
C’è sempre molta tensione visiva, ma anche tanto manierismo, nel modo in cui l’eccentrico regista danese arabesca sul grande schermo i suoi complessi giochi linguistici e le sue programmatiche prese di posizione narrative; ma, pur sotto l’insopportabile e narcisistica crosta didascalica, non è difficile cogliere sempre nei suoi film la forte e personale presenza di un autore che sa caricare di forza espressiva le proprie immagini, come conferma anche Melancholia, per ora il suo ultimo film (ma è già annunciato The Nymphomaniac), che è anche il suo più intimo e autobiografico, con una prima parte non sempre digeribile a causa dell’insistito e fluttuante uso della camera a mano (in postumo stile “Dogma”), ma con una seconda che porta prepotentemente in primo piano quella che è forse la caratteristica più originale e inquietante di tutto il cinema di von Trier: vale a dire, il profondo amore della sua cinepresa per i personaggi, intesi come individui, che, senza paura di contraddizione, si accompagna però a un fondamentale disprezzo per la specie umana, la quale solo attraverso l’arte può sperare di poter infine colmare la catastrofica frattura che la scienza e il progresso, portando al trionfo solo la razionalità tecnica, hanno storicamente finito col creare nei confronti della natura, che proprio della bellezza è la più legittima depositaria.
(di Aldo Viganò)