Il troppo grande altopiano turco che si chiama Anatolia, distese piatte, colline dietro colline, avvallamenti su avvallamenti, strade sterrate che seguono le tortuose forme del terreno, posti dove non si incontra nessuno, piccoli paesi tutti uguali. Un deserto dove perdersi.
Cercarvi un cadavere è peggio che cercare l’ago nel pagliaio. È notte. Due macchine, una camionetta, un medico, un magistrato, dei poliziotti, due arrestati. Vanno a caso, senza convinzione, su strade che sembrano serpenti lungo i fianchi delle alture, tante sono le curve. Un albero isolato. La luna è quella di sempre. L’abbaiare lontano di un cane. Un tuono. Non sanno dove è stato commesso il delitto. Forse vicino a una fontana, a un abbeveratoio. Ma l’uomo che ha confessato di essere l’omicida non riconosce il posto, era ubriaco, gli sembra sia qui, si sbaglia, ripartono, si fermano di nuovo. Per quel che ne sanno potrebbero anche girare in tondo, trovarsi sempre allo stesso punto.
Il titolo C’era una volta in Anatolia sembra volerci trasportare in un’atmosfera fiabesca, o persino epica. Non è così. La prima parte del film conserva delle fiabe un solo elemento, il perdersi, il girare a vuoto nella notte: ma quell’elemento del vagabondare viene stravolto, stinge nel vuoto e nel nero, fino allo sfinimento. Quella peregrinazione notturna confonde gli uomini nella loro ricerca, li svuota, tanto che pensiamo possano perdere il motivo del loro cercare. Si fermano in un paesino, mangiano qualcosa, riprendono le ricerche: e all’alba trovano il cadavere.
Adesso – e siamo nella seconda parte del film – bisogna scoprire perché l’uomo è stato ucciso. E noi, messi sull’avviso da quella lunga prima parte di spostamenti notturni alla cieca, cominciamo ben presto a pensare che, anche se il cadavere è sul bancone dell’obitorio, è molto probabile che le successive indagini non arrivino a nulla, che ci sia qualcuno e qualche buona ragione perché esse non portino a una soluzione e che quel vagare a vuoto in cerca del corpo dell’ucciso si ripeta adesso sul terreno giudiziario, per dei buoni (cioè pessimi) motivi.
Il regista turco Nuri Bilge Ceylan, classe 1959, ha vinto con questo film il Gran Premio della Giuria a Cannes 2011 e dev’essere molto affezionato al festival francese: nel 2003, con Uzak, suo terzo film, intenso e profondo, uscito anche in Italia, aveva vinto il Gran Premio della Giuria e quello per la migliore interpretazione maschile; con il film successivo, Il piacere e l’amore (2006) era stato premiato dalla critica internazionale; infine, con Le tre scimmie (2008), aveva ricevuto il premio per la migliore regia. Nel giro di pochi anni, Bilge Ceylan è diventato un regista di primo piano nel panorama internazionale. Soprattutto per una ragione: che tutti i suoi film danno del suo paese una visione lontana da ogni stereotipo, diremmo una visione europea, come se l’occhio del regista guardasse a quello che resta della Turchia tradizionale ma soprattutto a quello che, dentro il vecchio mondo, lavora per farne venire alla luce un altro, più attuale e più duro, più opaco, più ambiguo. Così C’era una volta in Anatolia è un film poliziesco ma anche un film che va alla ricerca di una verità perduta e occultata, è un film con delitto ma tutto porta a far sì che quel delitto svanisca nel nulla, è un film che, di notte sull’altopiano e di giorno di ufficio in ufficio, di interrogatorio in interrogatorio, finisce per perdersi davvero e sfociare in una crudele e inerte pacificazione che è un insabbiamento.
I tempi larghi, le sequenze dilatate, il modo di guardare per campi vuoti o per dettagli danno al film una particolare andatura, quella del passo dopo passo, di un muoversi senza fretta, tanto non si dovrà arrivare da nessuna parte. Ci sono nelle immagini una sapienza e un disagio quasi primordiale, come se ancor prima di mettersi in viaggio quella notte per trovare il cadavere tutti già sapessero che la ricerca non sarebbe servita a nulla. La natura spoglia, una steppa senza alberi né coltivazioni, le strade polverose, tutti elementi ripresi con grande abilità documentaristica ed espressiva, sono già di per sé più che significanti. Riflettono un panorama interiore ugualmente prosciugato, arido, colpevole. Nei titoli di testa del film, compare, inaspettato, il nome di Anton Cechov. Molti dei dialoghi sembrano avere un sapore cechoviano, dicono e non dicono, vengono lasciati in sospeso e ripresi più avanti, come quella storia della donna che ha previsto il giorno della sua morte (e che si scopre essere la moglie di uno dei protagonisti).
Il film è un viaggio nel nero di un abisso. È vero che c’è un colpevole ma un po’ tutti sono colpevoli: di essere falliti come uomini. Tutti hanno qualcosa da nascondere, vogliono che non si cerchi troppo e che, se mai si trovasse qualcosa, non lo si dica in giro. Meglio che ogni cosa torni com’era prima. La moglie della vittima e il suo bambino vanno, soli e silenziosi, verso casa lungo un campo di gioco, un pallone finisce oltre la recinzione, il bambino lo rimanda ai suoi compagni. Le piccole increspature sullo stagno del gruppo sociale scompaiono senza tracce. Cosa vuoi che sia nascondere un piccolo, insignificante delitto.
Il titolo, C’era una volta in Anatolia, è allora da intendersi in realtà come “quel che c’era una volta c’è ancora adesso e ci sarà per sempre su quell’altopiano…” C’erano delitti da occultare, ci sono, ci saranno (siamo portati semplicemente ad aggiungere che fatti simili non succedono soltanto nell’odierna Turchia).
(di Bruno Fornara)