Cesare deve morire – Shakespeare a Rebibbia

cesare deve morireNel trasferire lo svolgimento del scespiriano Giulio Cesare dal foro romano (o, se si preferisce, dal palcoscenico elisabettiano) al carcere di Rebibbia, i fratelli Taviani ( e con loro il regista teatrale Fabio Cavalli sul cui lavoro si sono appoggiati) trasformano una storica tragedia della lotta per il potere in un regolamento di conti tra bande criminali; e, così facendo, riescono compiutamente a esprimere il loro fondamentale pessimismo nei confronti delle ideologie, nonché dell’attuale vita politica italiana e internazionale, realizzando nel contempo il loro film migliore da molti anni a questa parte. Ma Cesare deve morire non racconta solo l’arroganza di Cesare, i travagli intellettuali di Bruto, l’acrimonia di Cassio, il pericoloso populismo di Marc’Antonio e la fredda determinazione di Ottaviano sullo sfondo di un’ambientazione carceraria, perché di fatto il suo discorso “brechtianamente” (i Taviani non rinnegano loro stessi) si allarga sino a stabilire un rapporto dialettico tra la storia raccontata e la sua ambientazione, tra la libertà dell’arte e la condizione di reclusi in cui si trovano coloro che occasionalmente le stanno dando corpo, tra quelle vite malvissute, e rese perdenti se non altro dalle condanne definitive ricevute, e l’utopico sprazzo di luce che l’incontro con Shakespeare sembra lasciar loro intravvedere. Lavorando su un materiale umano e drammaturgico che di fatto a loro non appartiene (sono anni ormai che Fabio Cavalli porta avanti con ottimi risultati il laboratorio teatrale del carcere di Rebibbia), gli ormai ottantenni fratelli Taviani lo traducono in cinema (in una loro personale esperienza cinematografica) attraverso lo sguardo della cinepresa che, da una parte, è molto rispettosa della funzione documentaria assunta, ma che, dall’altra, rivendica a piena voce per sé (anche attraverso il sapiente lavoro del montatore Roberto Perpignani) il diritto-dovere di portare sullo schermo un’opera dotata di autonomia artistica. Ed ecco così che il lavoro collettivo – i provini per la scelta degli attori, il lavoro di questi per tradurre Shakespeare nei propri dialetti, le faticose ore di prove che ravvivano la monotona vita del carcere pur facendo percepire a uno di loro che la cella (dove infine farà inesorabilmente ritorno) proprio per quella parentesi di evasione è diventata una prigione, lo stesso intreccio narrativo di una delle più misteriose tragedie scespiriane (alla semplice linearità degli avvenimenti, vi fa infatti sempre riscontro la complessa ambiguità dei personaggi) – diventa il punto di partenza per fare essenzialmente del cinema che esprime il meglio di sé proprio quando le immagini indugiano a indagare i volti e i gesti di quei non-attori che, neo-realisticamente, vengono elevati al ruolo di storici giganti: con in primo piano la possente presenza dell’autorevole Giovanni Arcuri, nel ruolo del migliore Giulio Cesare visto sullo schermo (e forse anche sul palcoscenico), e la tormentata vitalità interpretativa del Bruto di Salvatore Striano che, non per caso, dopo di aver scontata la sua lunga pena, ha con piena legittimità scelto di continuare nella carriera dell’attore.

(di Aldo Viganò)

CESARE DEVE MORIRE
(Italia, 2012)
Regia e sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani – Soggetto: da Giulio Cesare di William Shakespeare – Fotografia: Simone Zampagni – Musica: Giuliano Taviani e Carmelo Travia – Montaggio: Roberto Perpignani.
Interpreti: Cosimo Rega (Cassio), Salvatore Striano (Bruto), Giovanni Arcuri (Giulio Cesare), Antonio Frasca (Marcantonio), Juan Dario Bonetti (Decio), Vincenzo Gallo (Lucio), Rosario Majorana (Metello), Fabio Cavalli (il regista).
Distribuzione: Sacher
Durata: un’ora e 16 minuti

Postato in Numero 98, Recensioni, Recensioni di Aldo Viganò.

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