Chissà se riusciranno a incrociarsi sulla Croisette, Bernardo Bertolucci e Jean-Louis Trintignant, di ritorno a Cannes dopo una lunga assenza dagli schermi, il primo con Io e te, un kammerspiel dal romanzo di Ammaniti, il secondo con Amour del cupo e crudo Haneke.
Non si può sapere quale lingua useranno per comunicare : Jean Louis parla bene l’italiano e Bernardo, grande snob, dichiarò che quando l’argomento è il cinema gli viene spontaneo esprimersi in francese. Una cosa è certa, che non potranno fare a meno di evocare il solo titolo che hanno in comune, un film del 1970, tra i più belli degli ultimi quarant’anni, Il conformista, dal romanzo di Moravia, spy story in stile déco e radiografia di un italiano non medio, che si arruola nell’Ovra per un patologico bisogno di normalità. Trintignant ingentiliva il suo personaggio di sicario con magistrali sfumature di timidezza
e Bertolucci ne seguiva il percorso in un tono misto di ironia, complicità e riprovazione.
Fondamentali si rivelarono tra gli altri l’ apporto dello sceneggiatore montatore Kim Arcalli, maestro di flash-back, che ha reso la storia più labirintica, e del musicista Delerue che ha evocato suggestivamente l’aria di Parigi.
La vocazione parigina del giovane regista di Parma, figlio del poeta Attilio si era manifestata già nel suo secondo film Prima della rivoluzione, omaggio cifrato a Stendhal, attraverso il ritratto di un ventenne di buona famiglia, Fabrizio (come Fabrizio del Dongo), incerto fra la tentazione del comunismo e il richiamo all’ordine borghese, tra una fidanzata con palco al Regio e una zia inquieta (Adriana Asti che si chiama Gina, come la Sanseverina).
Più del dilemma ideologico, colpiva la scrittura irregolare, a base di dissonanze, digressioni, citazioni e salti di tono alla maniera dei francesi. Non a caso il film, ignorato in Italia da pubblico e critica (che gli preferì la rivolta più urlata del Bellocchio de I pugni in tasca), fu invece ampiamente elogiato dai Cahiers du cinema che accolsero l’enfant prodige italiano (all’epoca ventitreenne) nel gotha dei giovani maestri. Ancor più francesizzante e più sfortunato il successivo Partner ,ovvero Il sosia di Dostoevskij riletto alla maniera di Godard, «un film schizofrenico sulla schizofrenia», secondo le parole del regista) cui fece seguito un film per la televisione, dedicato alla regione Emilia Romagna, La strategia del ragno dal racconto di Borges Tema del traditore e dell’eroe, trasferito nell’ambiente dell’antifascismo anni Trenta, con sfondi bucolico surreali memori di Ligabue e di Magritte (forse qualche lettore ricorda la presentazione del film al Cuc di Genova nell’autunno del 1970: qualcuno accusò il film di revisionismo, e il regista seppe difendersi con ironia).
Poi Il conformista, accolto un po’ tiepidamente da noi (ma alla Paramount lo proiettavano come modello per i giovani registi), e il successo di scandalo oltre che di box office (con relative querele, sequestro e rogo della pellicola) di Ultimo tango a Parigi, festa della liberazione sessuale, tra Henry Miller e Wilhelm Reich. Rivisto oggi appare un po’ didascalico ma Marlon Brando usato come maturo oggetto di desiderio e le luci arancioni di Storaro ispirate a Francis Bacon dicevano di più dei dialoghi.
Nel 1976 il colossal nazional popolare Novecento, sui destini di due amici, il padrone e il contadino (De Niro e Depardieu) dal 1900 al 1945: un po’ troppo manicheo (i contadini sempre più sani e più onesti dei padroni) e poco originale soprattutto nelle scene dove l’influenza di Visconti è più evidente. La consacrazione internazionale arrivò con il film dei nove Oscar, L’ultimo imperatore calligrafico biopic su Pu Yi, autocrate senza potere, dai fasti della Città Proibita alla rieducazione nel carcere maoista. Bertolucci rimane in superficie ma non era facile rendere interessante un personaggio tanto passivo.
E ancora negli anni Novanta e oltre, cinque o sei titoli non tutti memorabili, tra cui spicca Il tè nel deserto dal romanzo di Paul Bowles. Ma in Bertolucci certe volte c’è qualcosa di grande anche negli errori. Quello che ritorna nei suoi film, quindici in cinquant’anni (il debutto, sotto l’egida di Pasolini, risale al 1962 con La commare secca) assieme al vitalismo (eros più morte più edipo) e al populismo (nutrito di sensi di colpa di classe) è lo stile impuro, capace di alternare preziosismi e sciatterie, eccessi di realismo e di irrealismo, straniamenti brechtiani e turgori da melodramma, secondo la lezione della Nouvelle Vague, di cui Bertolucci è l’erede italiano più autorevole. Perciò non è tanto importante sapere se Io e te sarà all’altezza del Conformista (il risultato è già nell’averlo
portato a termine malgrado la salute precaria).
E non è nemmeno giusto rammaricarsi se i suoi capolavori li ha girati prima dei trent’anni. Erano gli anni Sessanta, quando sognare (e girare dei film che aiutano a sognare) sembrava più facile.
(Oreste De Fornari)