Gli ingredienti per regalare un nuovo “cult” al pubblico ci sarebbero stati probabilmente tutti: la presenza di Johnny Depp nei panni del protagonista di una vicenda tutta sbornie a catena, deliri assortiti e sfondi caraibici da favola; il libro postumo di un autore – Hunter Stockton Thompson – mitizzato da un paio di generazioni come cantore del disagio di quei giovani che a fine anni ’60 volevano cambiare tutto, ma che in realtà erano riusciti solo a evadere dalla realtà inventando paradisi artificiali in cui declinare la propria inadeguatezza; il ricrearsi (anche se “in absentia”) della coppia vincente Depp/Thompson che nel 1998 aveva confezionato quel mini prodotto di culto che continua a essere “Paura e delirio a Las Vegas”, tratto dal romanzo autobiografico “Paura e disgusto a Las Vegas” scritto da Thompson nel 1971 e diventato una specie di Vangelo della trasgressione in immagini impresso nella memoria di moltissimi fan.
Se a questo poi si aggiunge la possibilità di avere a disposizione il background fertilissimodi spunti narrativi della Porto Rico di inizi anni ’60 con i perduranti disordini di piazza e la costante insofferenza nei confronti del Grande Fratello USA, non si può certo dire che mancassero gli ingredienti per partorire un grande affresco epocale. Un ritratto a tutto tondo nel quale l’autobiografismo del libro di Thompson potesse essere proiettato su uno sfondo vivo e palpitante nel quale non ci fosse spazio solo per sbornie epiche, sfilate di macchiette da espatrio con contorno di molti vizi e poche virtù e ovvi maneggi di affaristi impegnati a palazzinare il paradiso in terra della più orientale delle Antille. Invece non è stato così. E vale la pena cercare di capire come mai ingredienti di qualità eccelsa non abbiano dato l’esito sperato una volta combinati nello shaker narrativo del film.
Johnny Depp veste i panni di Paul Kemp, giornalista free lance e scrittore in crisi che, disgustato dal mondo del giornalismo newyorkese e perseguitato da una non trascurabile dipendenza da alcool, decide di partire alla volta di San Juan di Porto Rico nella speranza che il cambio di scenario gli possa garantire quel quid necessario per ritrovare voglia di vivere e ispirazione creativa. Una volta arrivato a destinazione, si intrufola nella redazione del fatiscente quotidiano locale “The Puerto Rico Star”, dove conosce un paio di macchiette all’ultimo stadio del delirio etilico che certo non gli sono di grande giovamento ma che lo aiutano a entrare nel mood dell’isola introducendolo ai riti e miti della comunità americana residente in città. Superato lo scoglio dell’ambientamento iniziale (ma non quello dell’alzare sempre troppo il gomito a qualunque ora del giorno), Kemp conosce un losco affarista che sta tentando di farcire di cemento un’area incontaminata del paese e che cerca qualcuno in grado di scrivere accattivanti brochure pubblicitarie per presentare il progetto. Incontro questo quanto mai fatale perché il faccendiere si porta dietro una fidanzata bellissima e assai poco fedele della quale Kemp si innamora perdutamente finendo anche con l’esserne ricambiato (non dopo aver rischiato in un paio di occasione di lasciarci le penne per via della bellezza conturbante della biondona).
Tra sbornie colossali e scazzottate in locali ambigui, incontri di galli e comizi anti-USA per le strade, notti brave condite di tutto e di più e giorni deliranti spesi a combattere dei dopo sbronza di dimensioni epiche, il film serve un finale riparatorio e un po’ facilone: quando il giornale chiude e non ci sono più troppe ragioni per rimanere sull’isola (anche se la bionda mozzafiato viene defenestrata dal faccendiere e gli offre le proprie grazie anche a tempo indeterminato), Kemp ruba una barca e parte alla volta di una nuova tappa – ignota – di una vita tutta singulti e singhiozzi esistenziali.
Johnny Depp ha creduto moltissimo nel progetto: amico fraterno di Thompson (al cui funerale – da lui stesso interamente sovvenzionato – ne disperse spettacolarmente le ceneri al culmine di una cerimonia a dir poco bizzarra), comprò i diritti del romanzo scritto dal giornalista newyorkese nei primi anni ’60 e rimasto in versione manoscritta anche dopo la morte dell’autore, suicidatosi ad Aspen nel 2005. Dopo averne curato la pubblicazione nel 1998, fece il possibile perché il testo si convertisse in un film. Cosa avvenuta solo lo scorso anno, quando la casa di produzione di Depp, la Infinitum Nihil, riuscì finalmente a realizzare quello che per stessa ammissione di Depp era diventato una sorta di tributo dovuto all’amico e mentore letterario degli anni della formazione.
Scritto e diretto dallo sceneggiatore e regista inglese Bruce Robinson (suo lo splendido script di “Urla del silenzio”), il film ha però più pregi che difetti. A cominciare da Depp: come accaduto anche in passato in pellicole nelle quali non lo aveva diretto un regista di polso, anche qui tende a strafare e a perdersi in gigionerie non sempre necessarie e destinate a stancare dopo che lo si rivede per l’ennesima volta fare il verso a certi personaggi hemingweyani da esportazione caraibica con la bottiglia in mano e il passo impacciato alla Robert Mitchum sbronzo. Per passare poi alla struttura stessa del film: essendo basato su un libro autobiografico – per altro uscito postumo e quindi non approvato dall’autore – nel quale i ricordi in prima persona si affastellano in un accumulo un po’ barocco e incontrollato, il film ne risente in maniera diretta perché sembra difettare di una coerenza interna, presentando invece solo una lunga sequenza di quadri scollegati che non riescono a trovare continuità sequenziale nella logica narrativa del racconto. Per finire con la superficialità con la quale il contesto storico e ambientale viene presentato: la Porto Rico del 1960 che si vede nel film potrebbe essere una qualunque isola dei Caraibi popolata di yankee in delirio etilico, affaristi senza scrupoli e una popolazione locale amorfa e un po’ di carta pesta nella rabbia sociale stereotipata che ne alimenta il disagio. E a poco serve la meticolosità con la quale la produzione si è impegnata nella ricostruzione accuratissima dell’”imago temporis”: il film è una sorta di enciclopedia per immagini del vintage (vestiti, occhiali, elettrodomestici ma soprattutto automobili da favola tra le quali fa bella mostra una vecchia ‘500 decapottabile) che manderà di certo in deliquio gli appassionati del settore.
Quanto invece ai fan – moltissimi in giro per il mondo – dei libri e del personaggio di Thompson non rimarranno delusi. Proprio perché, a prescindere dal fatto che il film non è certo memorabile, potranno ancora gioire della presenza di Depp di nuovo nei panni del proprio beniamino, identificando nel suo viso spettrale di eterno bambino in dissidio con le regole e i buoni principi quell’icona di sregolato anti-eroe che “Paura e delirio a Las Vegas” aveva loro regalato cristallizzandola per sempre nella memoria.
(di Guido Reverdito)