Tra le tante immagini di devastante violenza che per due ore investono lo spettatore, le più traumatiche sono per assurdo quelle che non mostrano nulla limitandosi a mettere nero su bianco dieci anni di mancata giustizia per quanti (le vittime e le loro famiglie ma anche l’intera società civile) speravano che i responsabili materiali di quegli orrori venissero chiamati a pagare il fio delle proprie colpe.
Invece il nulla di fatto. Dopo due gradi di giudizio e in attesa del pronunciamento definitivo della Cassazione, a tutt’oggi solo 29 membri delle forze dell’ordine coinvolti nei fatti della scuola Diaz (i soli a essere stati identificati tra i quasi 400 presenti) sono stati sottoposti a processo riportando condanne lievi per lesioni, falso in atto pubblico e calunnia. Trattamento analogo riservato ai 44 ritenuti responsabili per le violenze perpetrate nella caserma di Bolzaneto (dove furono trasferite e ulteriormente massacrate di botte le 93 persone arrestate all’interno della Diaz). Ovvero condanne ugualmente lievi per abuso d’ufficio, violenza privata e abuso di autorità contro detenuti. Quasi tutte già passate in prescrizione non solo per la vergognosa dilatazione che il corso processuale ha avuto da quei bollenti giorni dell’estate genovese, ma soprattutto per il fatto che il codice italiano non prevedere il reato per tortura, destinato ad infliggere condanne ben più severe e non facilmente prescrivibili se contemplato ed eventualmente applicato.
Fin qui i fatti di natura extra cinematografica, indispensabili per comprendere lo stato delle cose e, di conseguenza, la necessità “intima” di un film che ci si augura possa funzionare da parziale risarcimento per quanti sono stati prima vittime della follia di quei giorni e poi della giustizia di un paese incapace – sin dai tempi del Fascismo – di fare chiarezza tra le pagine più cupe della sua Storia piagata da troppe ferite rimaste aperte da sempre per essere considerate solo pure coincidenze.
Girato in Romania sia per ragioni di costi sia soprattutto per evitare che la lavorazione potesse essere in qualche modo condizionata dalla contiguità con gli ambienti in cui i fatti si svolsero, il film di Daniele Vicari – acclamato dal pubblico della 62esima edizione della Berlinale – ricostruisce quanto accaduto a Genova nella famigerata notte tra il 20 e il 21 luglio del 2001. La scelta della sceneggiatura è caduta su una struttura corale nella quale le vicende vengono ripercorse attraverso gli incastri fortuiti delle vite di passaggio di una serie di persone trovatesi per caso a trascorrere la notte all’interno della scuole Diaz-Pascoli-Pertini, che il Comune di Genova aveva destinato al Genoa Social Forum come sede del centro di raccolta informazioni.
Tra gli attivisti in cerca di un tetto sotto cui dormire ci sono persone di ogni età, condizione, credo e professione: un’anarchica tedesca che collabora con un responsabile della logistica; un giornalista de “Il Resto del Carlino” (qui convertito in “Gazzetta di Bologna”) partito di corsa per documentare quanto stesse accadendo nella città ferita da due giorni di scontri e dalla morte, nel primo pomeriggio di quel 20 luglio, del giovane Carlo Giuliani; un anziano militante della CGIL reduce dal corteo pacifico sfilato in mattinata per le vie genovesi; un manager francese in città per assistere a un seminario di Susan George e costretto a rifugiarsi alla Diaz non avendo trovato posti negli alberghi; due attivisti tedeschi in cerca di un passaggio per tornare in Germania; un giornalista inglese poi testimone chiave nelle varie fasi processuali, ma anche un black blok francese rimasto casualmente fuori dalla scuola e un vicequestore aggiunto chiamato a guidare suo malgrado l’assalto all’edificio nel cuore della notte.
Dopo aver speso una buona mezz’ora a inseguire le tracce di questi personaggi pedinandoli fino al momento in cui li si accompagna a incontrarsi col tragico destino che li attende nei locali apparentemente innocui di una scuola trasformata in media center, il film di Vicari entra veramente nel vivo. Da quel momento in poi per lo spettatore non c’è più tregua: partendo dai monumentali faldoni delle carte processuali contenenti le dolorose testimonianze rese dai protagonisti involontari della notte alla Diaz, Vicari ripercorre con mano ferma tutte le fasi di una notte di assurda e immotivata violenza destinata a convertire il 21 luglio del 2001 nella più grave violazione di ogni forma di diritto civile e umano a danno di vittime inermi dai tempi della II Guerra Mondiale (come anche sancito da Amnesty International nell’ormai celebre e lapidaria affermazione che appare sui manifesti del film).
Ecco quindi sfilare di fronte agli occhi increduli dello spettatore anche più attrezzato e documentato la sequenza degli orrori: dalla progettazione del push da parte dei vertici della Polizia di Stato (con tanto di prove inventate per motivare l’assalto) fino alla sua messa in pratica, presentata senza risparmio alcuno di dettagli spaventosi, resi ancora più impressionanti dal fatto di essere stati ricostruiti sulla base delle testimonianze rese dalle vittime e quindi non certo figlie di una fantasia animata dal sensazionalismo delle immagini forti a tutti i costi. Il tutto girato senza alcun compiacimento estetico e come raramente si vede fare in Italia, ovvero con la macchina da presa che diventa l’occhio passivo che imprigiona l’attimo fatale dell’evento senza ricorso alcuno ad artifici che possano accentuare o ridurre l’impatto di quanto viene mostrato. Ma soprattutto imponendosi il compito difficilissimo di mostrare senza mai giudicare, illustrando i fatti avvenuti evitando però che lo spettatore percepisca faziosità alcuna nel racconto, ma esca dalla sala convinto di avere letto un saggio per immagini su qualcosa che nessuno aveva fino a quel momento avuto il coraggio di affrontare con tanto rigore critico e assoluta oggettività di approccio.
Forte di un curriculum di tutto rispetto nel quale spicca una decisa propensione documentaristica all’impegno associata a un’idea di cinema che sappia educare senza dimenticare le ragioni nude e crude dell’intrattenimento (bellissimo il suo sottovalutato “L’orizzonte degli eventi” del 2005), con questo film Daniele Vicari regala al cinema italiano un sussulto che lo riporta alle stagioni in cui l’impegno dietro la macchina da presa era sentito come un servizio fatto a favore del pubblico in sala, richiamando a fare da protagonista quel modo di raccontare il peggio della nostra intricata Storia col giusto distacco di chi mostra senza mai dare l’impressione di parteggiare. Una modalità di approccio al racconto che nomi del calibro di Lizzani, Rosi e Petri hanno saputo convertire in una cifra di qualità del miglior cinema italiano di sempre.
Un cinema che, considerando titoli importantissimi quali i recenti “A.C.A.B. – All Cops are Bastards” e ancora di più “Romanzo di una strage”, sembra voler inaugurare una sorta di rinascimento delle coscienze, risvegliando la sonnolenza etica di un popolo intero a colpi di realtà bruta sbattuta in faccia con lo strumento della denuncia illustrativa fatta per immagini. Un cinema coraggioso che osa mettere il dito nella piaga, ma ancor più perché scommette sulla sete di qualità da parte di un pubblico ottuso da troppi anni di cinepanettoni e commediole insulse responsabili – almeno in parte – di quel torpore civile che da troppo tempo permette si verifichino fatti come quelli del 21 luglio 2001.
Diaz è un film “necessario”, che verrebbe voglia di rendere obbligatorio per tutti. Sia per chi c’era e ha desiderio di rivedere per cercare di capire come siano veramente andate le cose, sia soprattutto per quanti (politici conniventi, vertici delle forze dell’ordine usciti indenni in ogni grado di processo ed esecutori materiali del feroce massacro diviso tra il push alla Diaz e le umiliazioni psicofisiche imposte nella caserma di Bolzaneto) hanno impiegato gli ultimi dieci anni delle proprie esistenze a negare le evidenze, depistare le indagini, nascondere responsabilità e deridere la sofferenza di chi porterà per sempre nel cuore e nel corpo le tracce di quella notte di follia.
(di Guido Reverdito)