Non c’è bisogno di scomodare Raymond Queneau per affermare che gli esercizi di stile sono nobilissime manifestazioni del pensiero. E non c’è bisogno di scomodare Serge Daney (o chi per lui) per dichiarare che al cinema le storie (e le sceneggiature) contano ma sino a un certo punto.
Questo per dire, semplicemente, che il nuovo film di David Fincher, non è la versione hollywoodiana giunta in ritardo della trilogia cinematografica svedese tratta dai libri elefantiaci di Stieg Larsson.
Ci vuole davvero poco per notare come Fincher, in perfetto stile hollywoodiano (nel senso di quella classica, beninteso), se ne freghi altamente di plot e varia exotica svedese. Riducendo all’essenziale, grazie all’aiuto di Steve Zaillian, il primo tomo dedicato alle imprese di Lisbeth Salander, Fincher dimostra che ciò che conta al cinema è lo stile, perché è solo dallo stile che discende la potenza del racconto stesso. Ciò che entusiasma di più del suo film, però, e non è un paradosso, è l’invisibilità del suo stile (anche questa una cosa classicamente hollywoodiana).
Se si escludono i titoli di testa che sembrano rimandare a Tsukamoto Shinya, il suo film estremizza quel partito preso della trasparenza che a partire da Zodiac è diventata la cifra dominante del suo stile. Ed è grazie a questa trasparenza che Fincher riesce a inoculare nel corpo del suo film una strepitosa riflessione sulle forme del tempo che assume i contorni di una vera e propria lezione di sguardo e di cinema. C’è una linea retta che collega le indagini al computer di Rick Deckard in Blade Runner alle foto animate di Fincher. Nel mondo di Millennium secondo Fincher ciò che conta è lo sguardo e il tempo. L’uno e l’altro esistono in una simbiosi inevitabile. Così, mentre la trilogia svedese, pigramente mette per immagini linearmente la traccia narrativa dei libri di Larsson, Fincher, operando verticalmente, offre una lettura mai vista di storie che ormai conoscono anche i sassi. E, come in ogni vero esercizio di stile, quando pensi che sia tutto chiaro, giunge la fitta al cuore che non ti aspetti, che conferisce carne e sangue a quei corpi che sullo schermo sembravano così…trasparenti. Se proprio volete saperlo, è esattamente questo la differenza fra un cineasta e un mestierante che si limita a filmare sceneggiature illudendosi così di fare del cinema.
(di Giona A. Nazzaro)