Il trionfo dell’Italia alla 62esima Berlinale arriva insperato a risollevare gli umori, di un cinema ormai troppo spesso concentrato, a livello produttivo, su commedie banali che puntano sul successo commerciale. L’Orso d’oro per Cesare deve morire consegnato ai fratelli Taviani – che contano, in due, 164 anni di vita simbiotica perlopiù dedicata al cinema, una Palma d’oro nel 1977 per Padre padrone, molti altri successi come La notte di San Lorenzo e qualche caduta come il recente La masseria delle allodole presentato proprio a Berlino nel 2007 – arriva dopo 21 anni dall’ultimo successo italiano (l’Orso a La casa del sorriso di Marco Ferreri), mentre da 11 anni il “made in Italy” non vince una Palma a Cannes e da 14 un Leone a Venezia.
Cesare deve morire è un film poetico, coraggioso, difficile. Una docufiction ambientata nella sezione di massima sicurezza del carcere di Rebibbia a Roma che racconta la messa in scena del Giulio Cesare shakespeariano da parte dei detenuti (fra cui molti condannati all’ergastolo), in un gioco di teatro nel teatro dove amore e odio, lealtà e tradimento, potere e assoggettamento rappresentano i meccanismi che dominano non solo gli antichi romani, non solo i carcerati ma l’umanità intera.
L’Italia ha fatto parlare di sé a Berlino anche fuori del concorso ufficiale: Diaz di Daniele Vicari ha conquistato il secondo premio, assegnato dal pubblico, della sezione Panorama. Anche qui si potrebbe parlare di docufiction, o meglio di una fiction documentaristica che ripercorre alcuni dei drammatici eventi del G8 di Genova nel 2001, in parte rifacendosi alla documentazione video di quei giorni, in parte affidandosi alle testimonianze dei partecipanti. Spiega il regista “È stato un evento enorme che ha coinvolto i capi di Stato di tutto il mondo, ha visto l’arrivo di centinaia di migliaia di manifestanti anch’essi da tutto il mondo, ha visto la presenza di una quantità mai impiegata prima in Italia di forze dell’ordine. Migliaia di video attivisti, operatori televisivi, video operatori delle forze dell’ordine, fotografi e registi cinematografici hanno ripreso ogni cosa. Nell’archivio del Genova Legal Forum sono conservate migliaia di ore di riprese video e fotografie. Tutto è stato documentato. Tutto, tranne ciò che è accaduto dentro la scuola Diaz e dentro la caserma di Bolzaneto”.
E, Vicari parte proprio da questo vuoto narrativo per ricostruire – attraverso gli atti del processo e la voce di quelli che hanno partecipato – ciò che verosimilmente è potuto accadere all’interno della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto: la violenza e la vendetta delle forze dell’ordine su dei supposti black block, vittime sacrificali dei disordini dei giorni precedenti. “Anche supponendo che i presenti fossero stati tutti incalliti black block, in base a quali norme o principi democratici si è potuta prendere una simile iniziativa? Per perseguire reati contro le cose, uno Stato ha il diritto di commettere così gravi reati contro le persone? A posteriori mi chiedo anche: non è per caso Genova 2001 abbia dato inizio ad una crisi sociale e istituzionale profondissima che in un decennio di “fantapolitica” ha portato l’Italia sull’orlo del baratro?” sono le agghiaccianti domande che il regista di Velocità massima (si) pone.
Prima di arrivare a raccontare gli orrori della Diaz e di Bolzaneto: pestaggio, umiliazione e tortura da parte della polizia sugli ospiti del Genoa Social Forum, Vicari ripercorre alcuni tragici episodi dei giorni precedenti – la morte di Carlo Giuliani, le cariche sui manifestanti, i vandalismi dei black block – guardandoli attraverso il punto di vista di vari personaggi: un giornalista (Elio Germano), il comandante del VII nucleo di poliziotti (Claudio Santamaria), un’anarchica tedesca (Jennifer Ulrich), un anziano militante Cgil (Renato Scarpa), a cui si affiancano tantissimi altri personaggi e diversi attori genovesi come Ignazio Oliva e Fabrizio Lo Presti. La narrazione procede avanti e indietro nel tempo, con una costruzione che ha il suo leitmotiv nella rottura di una semplice bottiglietta di vetro, un simbolo forse troppo artificioso (così come il rallenti dell’inquadratura) che vuole rappresentare l’innocenza dei manifestanti.
Le riprese si sono svolte a Genova e a Bucarest. “In Romania abbiamo ricostruito Via Battisti, 250 metri di scenografia – racconta Vicari – Dal nulla di un gigantesco piazzale di cemento alla periferia di Bucarest è venuto su un intero quartiere di Genova. Diaz è un po’ come un film di guerra: ha avuto bisogno di un grande lavoro di stuntman, effetti speciali, numerose auto di scena e mezzi tecnici abbondanti”. E conclude ringraziando il produttore Domenico Procacci che nonostante le difficoltà ha creduto nel progetto fino in fondo.
(di Francesca Felletti)