Anche senza andare a scomodare i tempi del cinema muto (ricchissimi di pellicole “en travesti”), basterebbe soltanto pensare a un classico quale A qualcuno piace caldo del ’59 per capire quanto il cinema abbia sempre amato il tema del travestitismo in tutte le sue varianti. I titoli dedicati a quello che a buon diritto può ormai considerarsi una sorta di sottogenere autonomo e indipendente si sprecano davvero (da Victor Victoria a Yentl, da Tootsie a Mrs. Doubtfire, da Lady Oscar a What Women Want, da Priscilla regina del deserto a Mulan e via di questo passo) e prospettano ogni tipo di variazione più o meno cervellotica e bizzarra sul tema.
Non è quindi una sorpresa l’arrivo nelle sale di “Albert Nobbs”, sofisticata produzione anglo-irlandese presentata al Toronto Film Festival e poi al Torino Film Festival dello scorso anno, ancora una volta incentrata su un caso di travestimento coatto per un personaggio che si vede costretto a rinnegare la propria natura accettando di vivere un’esistenza fatta di travestimenti, finzioni e trucchi all’insegna del terrore che questa mascherata possa essere scoperta. La genesi del film è stata molto macchinosa dal punto di vista produttivo. In principio c’era il racconto “The singular Life of Albert Nobbs”di George Moore, scrittore irlandese del secondo ‘800, racconto poi convertito nel 1982 in piece teatrale di un certo successo dal regista e scrittore Simon Benmussa. A interpretare la difficile parte del protagonista “en travesti” era Glen Close la quale, per sua stessa ammissione, rimase così intimamente colpita dalla vicenda che la vedeva al centro della scena teatrale, da ripromettersi di trasferirla sul grande schermo per affrontare una nuova sfida attorale di altissimo livello.
Pur avendoci messo la bellezza di un trentennio, la pluripremiata attrice sessantaquattrene è riuscita nell’impresa dopo aver quasi rischiato di gettare la spugna in due diversi periodi della propria carriera: prima, agli inizi degli anni ’90 ai tempi di “Meeting Venus”, quando a dirigerla era il grande ungherese István Szabó al quale la Close confidò il proprio progetto e dal quale ricevette di lì a poco una prima stesura, senza che però poi se ne facesse nulla; e poi, circa dieci anni dopo, quando la Close stessa scrisse una propria versione dello script ma non trovò chi le finanziasse l’impresa.
Ma alla fine la testardaggine della Close è stata premiata perché due anni or sono è riuscita a trovare due produttrici che invece hanno creduto in lei e nella sua idea, e anche due sceneggiatori del calibro di John Banville e Gabriella Prekop capaci di rimettere mano alla sua versione della sceneggiatura dandole i giusti ritmi cinematografici. Ma è stata soprattutto bravissima a trovare un regista (Rodrigo García, figlio del premio Nobel Gabriel “Gabo” García Márquez con tanta TV di qualità alle spalle) che non fosse spaventato dalle difficoltà teoriche di un dramma in costume nel quale il protagonista recita per l’intera durata della pellicola travestito da ciò che non è e nel quale temi “pesanti” come la ricerca della propria identità, la lotta per la sopravvivenza nell’Irlanda economicamente disperata di fine ‘800 e la difficile condizione femminile potessero convivere in un film senza dar l’impressione di essere una maionese impazzita o un minestrone zeppo di troppi ingredienti. A riprova di quanto la Close abbia fatto bene a insistere stanno le tre nomination con il quale “Albert Nobbs” si presenta a Los Angeles a caccia di altrettante statuette nella strombazzatissima notte degli Oscar.
Il film ruota tutto intorno alla figura dell’Albert Nobbs del titolo: impeccabile e formalissimo maggiordomo da anni in forza alle maestranze del dublinese Hotel Morrison, l’uomo è ormai parte così integrante dell’ambiente in cui si muove e lavora da essere universalmente accettato da tutti (colleghi e clienti) come uno dei punti di forza dell’intera struttura. Anche se a molti il suo comportamento riservato e sussiegoso sembra solo la punta di iceberg di un carattere timido e introverso, a nessuno è mai venuto il sospetto che dietro quella facciata fatta di inchini formali, di rispetto dell’etichetta e di devozione a una tradizione lunga secoli (e l’Anthony Hopkins di “Quel che resta del giorno” dovrebbe dire qualcosa in proposito) si celi un segreto mostruoso destinato ad affiorare quando il film ha ormai offerto un buon terzo della propria durata. Si tratta però di un segreto di Pulcinella che, una volta tanto, non merita di essere taciuto per rispetto del pubblico che vedrà il film nelle sale visto che i manifesti sono piuttosto espliciti in proposito e risulta francamente difficile non intuire quale sarà il perno narrativo dell’intera vicenda vedendovi raffigurata Glen Close vestita da maggiordomo.
Pur nella sua insindacabile centralità, il tema del travestimento non è però il vero (o il solo) nodo narrativo del film. Perché altri sono gli aspetti che vengono presi in esame e che l’espediente della donna convertita in uomo per necessità professionali permette a sceneggiatori e regista di sfruttare appieno. Uno di questi è proprio il ruolo della donna all’interno della società irlandese (ma non solo quella) di fine ‘800: segregata in casa come in molte altre parti del globo all’epoca, alla donna viene concesso praticamente soltanto il lusso del matrimonio visto come scorciatoia per una seppur marginale partecipazione alla vita di società, fermo restando che le viene negata ogni forma di affermazione a qualsiasi titolo. Il caso di Albert Nobbs, o della donna che giace sepolta sotto la divisa da maggiordomo in cui è imprigionata da anni, è ancora più emblematico: abbandonata dai genitori in età giovanissima, cresce abituandosi a un destino di esclusione cui però reagisce inventandosi una carriera in abiti maschili, per lottare contro le convenzioni sociali ma anche raggiungere un’indipendenza che le sarebbe stata negata se avesse scelto di seguire la propria intima natura. Non è infatti un caso che Nobbs abbia trascorso gli anni presso l’Hotel Morrison risparmiando in maniera micragnosa per poter coronare un sogno cullato da sempre, e cioè quello dell’indipendenza economica che, per lui/lei, dovrebbe passare attraverso una tabaccheria che sogna di aprire coi risparmi di una vita.
Quello del sognare è un altro dei temi forti dell’intero film, ancora una volta saldato in maniera narrativamente efficacissima a quello pivotale del travestimento e della vita trascorsa in abiti che non ti appartengono: Albert Nobbs, donna mancata che si finge uomo per resistere alle intemperie dell’esistenza e alle minacce della società, sogna non solo di affrancarsi dalla schiavitù del posto fisso ma legato agli andamenti ballerini del mercato, ma soprattutto di poter un giorno esprimere appieno la propria femminilità, ridiventando quello che la recita di una vita le ha impedito di essere, ovvero una donna in grado di costruire una famiglia e di avere il ruolo che milioni di altre come lei hanno all’interno della società. Questo sogno è però controbilanciato costantemente dalla frustrazione: solo quando Nobbs incontra un individuo identico a lei (si tratta di un imbianchino venuto a decorare le stanze dell’Hotel Morrison il quale si rivela ben presto una donna sotto mentite spoglie, grazia alla cui amicizia il maggiordomo ha finalmente modo di esprimere almeno in parte la propria femminilità repressa e perduta usandone le soluzioni sociali come modello per un futuro possibile), avrà l’ardire di accarezzare l’idea di farsi una famiglia insieme alla giovane collega/cameriera che corteggia in modo goffo non ostante questa ne accetti le avance solo per compiacere il rozzo tuttofare dell’albergo di cui è perdutamente invaghita e che gliela spinge tra le braccia sperando di poter avere vantaggi economici per il viaggio negli USA che sogna di fare all’inseguimento della sua ingenua versione di sogno americano.
Lento e compassato come i movimenti di Albnert Nobbs nello svolgimento quasi sacrale delle proprie mansioni ma densissimo di temi pur nella quasi totale assenza di veri movimenti narrativi degni di nota, il film voluto così testardamente da Glenn Close è però soprattutto la celebrazione di un’attrice capace non solo di ingannare chiunque trasformandosi in un uomo credibile anche agli occhi del più attento degli osservatori, ma soprattutto di prodursi in una prova magistrale di virtuosismo linguistico (dimenticare l’accento americano inventandosi quello irlandese del secolo scorso e, cosa ancora più difficile, sforzandosi di modulare la propria voce in modo da far pensare a quella di un uomo molto timido e introverso abituato ad aprire bocca soltanto a comando) che purtroppo il pubblico italiano che si confronterà con la versione doppiata del lungometraggio non avrà modo di apprezzare per il sesto grado di mimetismo linguistico che questo esercizio di imitazione fonetica risulta essere.
(di Guido Reverdito)