Possibile che il cinepanettone italiota abbia fatto scuola negli USA imponendo il suo miserrimo modello di cinema usa e getta proprio in occasione del suo primo e inatteso flop peninsulare dopo anni di ininterrotta dittatura ai botteghini natalizi? A guardare “Capodanno a New York” sembra difficile non stabilire una qualche forma di possibile connessione tra un fenomeno tipico delle nostre latitudini e l’industria del divertimento di massa per eccellenza che ha fatto del classico binomio cinema=business la sua cifra caratteristica. Se si prescinde dal ricorso al turpiloquio per suscitare la risata facile e dai personaggi-macchietta con forzate caratterizzazioni regionali fatti apposta per dare corpo filmico ai piaceri perversi del gusto campanilistico che tanto piace dalle nostre parti, la formula di “Capodanno a New York” non sembra poi troppo diversa da quella usata in tanti “Vacanze di Natale a…” negli ultimi vent’anni a questa parte.
Anche qui la vicenda è puramente pretestuosa: tutto ruota intorno alla caduta della palla che, sin dal lontano 1907, ogni 31 dicembre rotola lentamente giù dal pennone di un grattacielo della newyorkese Times Square strapiena di gente che accorre a salutare l’anno nuovo seguendone il lento scivolamento verso il basso. Intorno a questo esile spunto narrativo si vengono a intrecciare le storie di una serie di personaggi che, pur avendo solo di rado momenti di reale contatto, intersecano le loro minime vicende umane sfiorandosi tangenzialmente in quello che, almeno in linea teorica, avrebbe di certo voluto essere un affresco corale in stile altmaniano.
Cosa che in realtà non accade perché ogni singola vicenda (il malato terminale che vorrebbe vedere la caduta della palla per l’ultima volta, l’infermiera che lo cura e che non può festeggiare l’arrivo del nuovo mondo perché il fidanzato è un militare di stanza in Afghanistan, la giornalista incaricata di “coprire” l’evento che si scopre essere la figlia del malato terminale, l’algida redattrice di una rivista che ha finalmente il coraggio di rassegnare le dimissioni e che trova in un volenteroso pony express il veicolo per realizzare tutti gli impossibili propositi per l’anno nuovo di cui ha confezionato un’accurata lista, la mamma manager separata che vorrebbe impedire alla figlia tredicenne di andare a Times Square a vedere la palla e a incontrare il ragazzino per cui ha una cotta, il figlio di papà bloccato da un incidente d’auto e pronto a incontrare una bella sconosciuta vista di sfuggita il capodanno precedente e destinata a rivelarsi essere la mamma manager, e ancora la cantante che dovrebbe esibirsi sul palco come corista in accompagnamento di una grande rock star ma finisce bloccata in ascensore con un fascinoso sconosciuto che odia l’ultima sera dell’anno ma che poi si converte e via dicendo con l’aggiunta di figurine minori) è praticamente scollata dalle altre e quindi l’affresco corale delle intenzioni si converte invece involontariamente in una rapsodia di ministorie parallele che alla fine producono un effetto straniante più che dipingere uno spaccato autentico di società.
Le somiglianze inquietanti con il cinepanettone delle nostre latitudini non si esauriscono però a queste scollature tipiche a livello di sceneggiatura. Anche qui si cerca di attirare il pubblico di ogni fascia di età e cultura ricorrendo allo specchietto per le allodole del cast di grande richiamo fatto di stelle grandi e meno grandi provenienti da ogni ambito del piccolo e del grande schermo. Se dalle nostre parti la TV però la fa da regina, qui a prevalere è invece il cinema, con la chiamata a raccolta di attori dal cachet stratosferico e da vincitori di Oscar messi accanto a divi emergenti o a celebrità sulla via del tramonto. Ecco quindi mostri sacri del calibro di De Niro, Michelle Pfeiffer (invecchiatissima e tirata come una pelle di tamburo) e Julie Andrews sfilare accanto ad attori già consolidati e super premiati del calibro di Hilary Swank, Sarah Jessica Parker, Carla Gugino, Halle Berry intorno ai quali si affannano come satelliti in cerca di un’orbita favorevole su cui lanciarsi i divi della generazione degli emergenti di lusso quali l’ex Signor Moore Ashton Kutcher, i belli e possibili Zac Efron e Josh Duhamel così come addirittura la spumeggiante Lea Michele, uno dei volti e delle voci più amate del fortunato serial TV “Glee”. Per non farsi mancare nulla – come accade spesso anche dalle nostri parti col reclutamento di cantanti o figuranti del mondo dello sport – c’è poi addirittura Jon Bon Jovi, tirato dentro per l’orlo della giacchetta col compito di dar voce e corpo alla rock star che nella sceneggiatura viene ingaggiata per cantare sul palco di Time Square la fatidica sera del 31 dicembre, ma che si rivela essere in grave crisi con la fidanzata a sua volta responsabile del catering di una festa lussuosa per invitati VIP che assistono alla caduta della palla da un punto di assoluto privilegio.
Parlando di musica, ecco infine un’altra inquietante similitudine tra il cinepanettone italiano e questa furbissima operazione firmata a due mani da Garry Marshall (re della commedia romantica di successo che non ha quasi mai sbagliato un colpo in anni di carriera) e da Katherine Fugate (già sceneggiatrice dell’ultimo successo rosa diretto dallo stesso Marshall, ovvero quel “Valentine’s Day” – distribuito in Italia col titolo di “Appuntamento con l’amore” – di cui questo “Capodanno a New York” è una specie di clone natalizio): anche qui si cerca di sfruttare la musica in voga del momento, associandola a pezzi di grande richiamo e facendo sì che il cachet di Jon Bon Jovi venga in parte ammortizzato usandone un paio di cavalli di battaglia e facendolo cantare con la diva del momento Lea Michele, capace da sola di attirare al cinema legioni di adolescenti stregati dalle maratone canore di “Glee”.
Se poi si aggiunge che il film è stato distribuito nelle sale proprio in occasione delle festività natalizie, sembra difficile pensare che i guru del marketing della Warner Bros non abbiano per lo meno studiato da vicino gli spiriti e le forme di quel sotto-prodotto cinematografico che ormai critica e pubblico riconoscono nell’etichetta di cinepanettone e che da almeno vent’anni la fa da padrone ai botteghini di casa nostra contando su una formula abusata di successo facile fatta degli ingredienti che abbiamo appena elencato.
Certo, va detto che del cinepanettone mancano le battutacce da caserma inserite in quel contesto da umorismo pecoreccio che ormai non sembra far più ridere nessuno e che anche i meno scaltri tra quanti hanno sempre premiato in passato prodotti di questo genere hanno dato quest’anno l’impressione di non gradire più molto. Ma per quanto si possa abbassare il tiro pur di trascinare in sala spettatori di ogni età nel momento in cui tutto contribuisce a rendere il cinema la forma di intrattenimento corale più gettonato, sarebbe stato veramente troppo pensare che l’autore di prodotti delicati e comunque sofisticati quali “Flamingo Kid”, “Paura d’amare” “Pretty Woman”, “Se scappi, ti sposo” o “Un amore speciale” potesse abbassarsi a clonare l’estetica scatologica di Bondi e De Sica costringendo De Niro e il resto del suo cast stellare a battutacce da angiporto solo per il puro soggiacere alle leggi del botteghino.
(di Guido Reverdito)