Chiudete gli occhi e immaginate di essere alle Hawaii. Vedete con la mente spiagge di sabbia finissima con alberi che si allungano sopra il mare, state a osservare sott’acqua frotte di pesci colorati, poco più in là c’è la barriera corallina, vedete picchi montagnosi ricoperti di fitta vegetazione, vulcani da cui esce lava e fumo. Il paradiso delle Hawaii. Adesso andate a vedere il bel film di Alexander Payne: e siete nelle isole Hawaii come sono, come le vedono e le vivono quelli che ci abitano, gli hawaiani che non portano sui fianchi il gonnellino di foglie di palma e al collo le collane di fiori carnosi, gli hawaiani che sono americani e non pensano di essere i discendenti degli antichi e orgogliosi abitatori di un paradiso che forse è esistito una volta, che adesso non c’è quasi più, paradiso che rischia di perdere anche gli ultimi angoli rimasti intatti.
Nel film di Payne, questi discendenti normalizzati si trovano ad affrontare i problemi di qualsiasi altro uomo o donna in qualsiasi altro posto del mondo: vivere giorno dopo giorno, restare sospesi tra una vita vegetale e la morte, crescere i figli. Poi succede qualcosa di inatteso e si accorgono, questi hawaiani di oggi, di dover pensare a ciò cui non avevano mai pensato: devono decidere se confrontarsi con il loro essere discendenti. Eredi di una tradizione che avevano dimenticato. Essere padroni e custodi di una terra che è stata accudita dai loro antenati e che adesso sta diventando un posto quasi come tutti gli altri di questo mondo. Essere discendenti – una volta che viene in mente questa parola – vuol dire dunque farsi carico di una tradizione. Conservarla, tramandarla. Prendersi cura di una porzione di mondo per lasciarla il più possibile intatta ai figli e alle figlie, che a loro volta dovranno essere consapevoli del compito loro affidato.
The Descendants è un film doppio: è sul nostro vivere (e finire di vivere) come di solito avviene, alle Hawaii e altrove; ed è sul come ci si può accorgere di stare dentro una tradizione, di essere cioè dei discendenti che hanno ricevuto un compito da rispettare e un luogo da custodire.
Tutto questo viene raccontato nel film con quella tranquilla modalità e semplice sicurezza tipica di Alexander Payne, regista (classe 1961) che si è costruito un percorso significativo, le cui tappe vanno, dopo due film di avvio (Passion of Marty, 1991, film di diploma, e La storia di Ruth, donna americana), da Election, esempio di satira sociale politicamente poco corretta dentro un universo scolastico, a un film “di famiglia” come A proposito di Schmidt, con un Jack Nicholson, uomo ultramedio e fresco pensionato che, quando la moglie tira le cuoia con l’aspirapolvere in mano, festeggia la raggiunta libertà facendo la pipì in giro per l’appartamento. Payne, di film in film, è andato a vedere, con acuta e partecipe adesione, cosa succede dentro le stanze e lungo le strade dell’America profonda e livellata.
Ai suoi film non si può attribuire una definizione precisa: sono commedie e sono radiografie sentimentali, sono rapporti non sempre amichevoli su fette di vita ordinaria. O anche viaggi in compagnia di gente piuttosto comune lungo le strade del vino californiano, come succede in Sideways – In viaggio con Jack, dove Jack è volgarotto e buzzurro e Miles è sì un intellettuale fallito ma è soprattutto una persona perbene. Sono comunque e sempre, i film di Payne, dei percorsi di “presa di coscienza”, se vogliamo usare un’espressione un po’ consunta, ma Payne la sa rimettere a nuovo: c’è qualcuno che vive così, senza pensarci su, e poi i casi dell’esistenza lo portano a fermarsi un momento e a cambiare. A Payne piace prende dei personaggi e renderli diversi senza stare a fargli la morale, farli diventare quello che erano già all’inizio ma non sapevano di essere o non riuscivano a essere. Come si dice in Sideways: il vino è vivo e noi, come il vino, maturiamo.
In The Descendants, l’avvocato Matt King esce di casa tutte le mattine in un paesaggio che di hawaiano non ha nulla: solo villette, una addosso all’altra, dove abitano tanti Matt King. Vita normale: addormentata. Poi, sua moglie ha un incidente e finisce in coma. E lui conosce il dolore, deve prendersi cura del corpo inerte di lei e deve mettersi a imparare a vivere con le due figlie di cui non si era mai preoccupato.
In più scopre anche qualcosa di sorprendente sulla vita della moglie. Insomma, l’avvocato Matt è obbligato dalle circostanze a rimettere in pari l’orologio della vita e lo fa fino in fondo: non solo si prende in carico le figlie (bravissima Shailene Woodleye nella parte della più grande); si trasforma anche nel difensore di una spiaggia, di un luogo incontaminato che Payne osserva soltanto da lontano, senza mai entrarci con la macchina da presa, come a volerlo proteggere, anche lui regista, con il suo cinema cauto e profondo. Non è facile incasellare un film come The Descendants: è una commedia ma un po’ sbilenca, è un film toccante ma non sentimentale, è un film socialmente utile ed ecologicamente istruttivo. È soprattutto sincero e dignitoso: e lascia un deposito di emozioni che lievita dopo la visione.
Ultima cosa. Non piccolo merito di Payne è aver dato a George Clooney la possibilità di non essere il “solito” Clooney. In questo film, matura anche lui come attore. È più incerto, capisce di essere gracile e vulnerabile: e questa scoperta lo fa diventare consapevole, nobile e forte. Come dovevano essere i suoi antenati, di cui lui è degno discendente.
(di Bruno Fornara)