Mister FBI – J. Edgar di Clint Eastwood

eastwood dicaprio edgarAlleluia: finalmente Clint Eastwood è tornato a dividere. Almeno i critici americani. “J.Edgar” ha rotto l’artificioso schieramento di osanna e di entusiasmi alzato dalle voci anche di chi aveva sempre disprezzato, senza neppure nasconderlo affatto, l’uomo e l’artista, unendosi poi al coro plaudente quando era quasi impossibile, e poco alla moda, non accorgersi dell’opera straordinaria del maggior regista hollywoodiano in attività. Ma se il biopic “Invictus” (questo sì angariato da falle e quasi da un ispirazione non convinta da commissione) rispondeva alle regole del politicamente corretto intorno al santino di Nelson Mandela, “J. Edgar” è cinema secondo Eastwood allo stato puro. Non convince solo chi preferisce l’attacco ideologico da volantino ad una lettura drammaturgica che sfrutti l’ambiguità del personaggio per ribadire le sue molte miserie e le risicate nobiltà.

Quasi mezzo secolo al comando e con otto presidenti che non sono riusciti a staccarlo dalla postazione di direttore assoluto, J. Edgar Hoover sino alla morte, il 2 maggio del 1972 alla vigilia del Watergate, è stato una cosa sola con la creatura che aveva praticamente creato e allevato, il Federal Bureau of Investigation. Una leggenda e un eroe della storia degli Usa? Per la parte più conservatrice dell’opinione pubblica sì, per gli altri, invece, un manipolatore e un persecutore che inseguiva unicamente la sua personalissima concezione della sicurezza nazionale dando la caccia più che alla malavita organizzata, ai comunisti, ai dissidenti, agli scomodi rappresentanti delle minoranze, usando le armi delle informazioni riservate e delle intercettazioni. Il suo archivio, zeppo di schede bollenti, è scomparso.

Quello che resta sono le polemiche, le rivelazioni, la contraddizione del suo essere omossessuale (ovviamente mascherato) seppure abbia costantemente osteggiato il movimento gay. Insomma, un caso patologico alla Howard Hughes dove l’ossessione compulsiva prende il sopravvento sulla razionalità.
Dagli inizi del Novecento all’infarto fatale mentre Nixon pensava seriamente un modo per scacciarlo dalla sua poltrona, Eastwood non nasconde niente: né le retate contro i radicali, né lo sfruttamento del rapimento di baby Lindbergh per mettere l’F.B.I sull’altare dell’istituzioni intoccabili, né i mezzi illegali, né tanto meno il suo legame affettivo con il vice Clyde Tolson. Ma lo fa alla Eastwood, quindi in nome della messa in scena cinematografica prima delle rampogne e di comizi. La regia mostra, indaga ma solo per i superficiali pare non giudicare. L’etica del vegliardo Clint è lontanissima dalla teorie e dalle pratiche di Hoover: dire che ne condivida, per quanto è dato da vedere sullo schermo, l’avversione per il radicalismo, è una forzatura non giustificata dalla sequenze che, come sempre in Eastwood, contengono e contemplano una “pietas” sconosciuta ai fondamentalisti.

Hoover, come gli rimprovera un suo azzimato agente, perseguiva oltre ai crimini pure le idee, quelle che non corrispondevano alla sua visione del mondo. Eastwood lo stampa negli occhi degli spettatori sin dall’inizio, senza indulgenze e senza reticenze. Intorno al personaggio fa lievitare un’epoca evocata in flash back attraverso la dettatura delle sue memorie (o della storia dell’F.B.I che erano per lui la stessa cosa) che J. Edgar voleva lasciare in eredità al futuro. Un futuro che lo avrebbe respinto e condannato. Il copione di Dustin Lance Black (“Milk”) volteggia intorno all’omosessualità unicamente con l’insistenza che serve alla regia per costruire il suo protagonista in un allestimento cupo, tetro, raramente, anche in esterni, lasciato alla pienezza della luce.

Per Eastwood, Hoower appartiene alla notte americana, a quella zona grigia che ha accompagnato la nazione nella perdita di tutte le sue innocenze. Hoover non era un americano tranquillo, neppure quando corteggiava la ragazza che sarebbe diventata la sua assistente-segretaria per tutta la vita o quando rischiò di fidanzarsi con Dorothy Lamour innescando la gelosia “radicale” di Tolson.

Si faceva pagare le vacanze da faccendieri, giocava ai cavalli con nessun rischio di perdere soldi, riceveva baci sulla guancia da Shirley Temple, non sopportava il Cagney di “Nemico pubblico” ma lo adorava quando compariva in “La pattuglia dei senza paura”, era geloso di Purvis il suo dipendente che tese l’agguato decisivo a Dillinger, si sentiva in imbarazzo, scappando, quando Ginger Rogers lo invitava a ballare, era un mammone cronico, un megalomane inguaribile e considerava l’FBI un fiore esclusivo del suo giardino.

Con la partecipazione di un cast in stato di grazia dove Leonardo DiCaprio (Hoover) e Arnie Hammer (Tolson) non perdono talento e credibilità neppure con il trucco mummificante di una vecchiaia impietosa, Eastwood, non insistendo sul duello tra l’F.B.I e il gangsterismo, presenta il suo “Quarto potere” in una dimensione che può lasciare perplessi od estasiati. Appartenendo alla seconda categoria, diventa impervio non raccomandare il “travestitismo” alla morte della madre e l’immagini di Tolson, con una carrellata all’indietro, che guarda per l’addio la fotografia dell’amato ricordando i passi sui baci ardenti in una lettera proibita tra la first lady Eleonor Roosevelt e la giornalista Lorena Hickok. Qui Clint Eastwood svela l’intima pregnanza del suo cinema, intessuto e modellato su una classicità che risponde sia alle coordinate dello stesso concetto artistico sia alla sua rimodellata simbolicità moderna. Non accorgersene è un peccato. Grave? Assolutamente sì.

(di Natalino Bruzzone)

Postato in Numero 96, Recensioni, Registi.

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