Al cinema con Mussolini
Uno studente impegnato in una ricerca sul cinema in epoca fascista si imbatterebbe subito in due antiche etichette: propaganda e telefoni bianchi. Fino a ieri, però, anche se ciò è quanto riporta ancora la prima fonte per il giovane che ha più dimestichezza col computer che con le biblioteche, Wikipedia insomma. Ma oggi le due etichette sono state ampiamente rivisitate da Al cinema con Mussolini, il libro di Salotti che riporta comunque nel sottotitolo la parola Regime, ma ancora dopo la parola Film, come per sottolineare che nell’argomentazione viene prima lo schermo rispetto al suo contesto storico.
Marco Salotti è infatti uno storico del cinema, che pur non dimenticando mai che le immagini sullo schermo fanno i conti – ora debitori, ora creditori – con la realtà restano sempre e comunque espressioni di un linguaggio che la realtà possono anche eluderla, evitarla, superarla. In una battuta, citata anche nella prefazione non così necessaria di Dino Cofrancesco, l’autore azzarda addirittura che “Camerini non è fascista, è il Fascismo a diventare talvolta cameriniano”; e Mario Camerini è stato con Alessandro Blasetti quasi una primadonna della macchina da presa negli anni trenta, il periodo preciso in questione. I due registi sono infatti presenti ciascuno con nove film dei quarantasette schedati.
L’indagine di Salotti parte da un’analisi storica che ha per protagoniste la produzione e la progettualità riconducibili alle figure di Pittaluga e di Freddi e arriva alla schedatura dei film, da La canzone dell’amore (1930) di Righelli a L’assedio dell’Alcazar (1940) di Genina. Vi si riconosceranno personaggi e interpreti consegnati alla Storia – tra i molti altri De Sica e Nazzari, gli esordi di Totò e di Mario Soldati – ma vi si scoprirà soprattutto uno sguardo arioso e accademico ad un tempo (buona parte del testo è costituito dalle note) su cinema e film che giacevano irrigiditi nella memoria.
Magritte e il cinema… chapeau!
di Marcella Biserni (Morlacchi, Perugia 2011, pp.212, 17 euro con dvd)
Quali erano i rapporti tra Magritte e il cinema? Sull’argomento esiste una documentazione frammentaria, cui cerca di mettere ordine questo libro scritto da una giovane studiosa del surrealismo, partendo dai primi cortometraggi realizzati con Paul Nougé nel 1928-30 e approdando al periodo tra il 1956 e l’inizio dei sessanta in cui Magritte, sulla scia delle esperienze fotografiche, trova nel cinema “uno sfogo liberatorio all’exercice ennuieux che gli imponeva il mestiere di pittore”. In mezzo, oltre all’analisi dei materiali filmati che ci sono giunti, c’è spazio anche per ricordare i gusti cinematografici dell’artista, fin da adolescente assiduo frequentatore del Cinéma bleu di Charleroi: l’amore per un cinema “ludico, spensierato e non intellettualista”, l’apprezzamento per le scene “dove apparivano pellerossa, cowboys, gangsters e soldati tedeschi”, e poi i vecchi comici, Spione di Lang, Il vampiro di Dreyer, fino alla vecchiaia, quando ancora preferiva i film “giocosi, creati per il divertimento più puro e senza pretese”. “I miei film preferiti sono Babette va alla guerra o Madame et son auto, non sopporto i film che vogliono insegnarmi qualcosa o espormi una tesi: quel tipo di cinema mi annoia”, diceva, asserendo anche di scegliere spesso i film “a seconda delle sale che permettevano o meno l’accesso al suo cane”. Si definiva fervente ammiratore di John Wayne, apprezzava Pierre Etaix, il Lemmy Caution di Eddie Constantine e pure l’Hitchcock di Psyco (nonostante certi aspetti grossolani e commerciali, diceva), mentre detestava I quattrocento colpi di Truffaut. Al volume è allegato un dvd in cui sono riportati i film di Magritte L’affaire Colinet o Paul Colinet, Le Dessert des Antilles e Le Loup rouge o Tuba Intérieur.
Lo schermo di Dio
di Auro Bernardi (Le Mani, Recco 2011, pp.194, 16 euro)
Film come Gli uomini di Dio o Il villaggio di Dio hanno riproposto esplicitamente in quest’ultima annata il tema della religione e del divino nel cinema. Adesso arriva il volume scritto da Auro Bernardi, studioso da sempre attento a questi argomenti e già autore di monografie su Dreyer e Bunuel per lo stesso editore. Al centro, il rapporto tra il cinema e il pensiero religioso, che Bernardi vede sintetizzato già nella parola “schermo”: un termine che indica sia la superficie su cui viene proiettato un film, sia un elemento che nasconde alla vista, rimandando così alla definizione di “Dio rivelato e nascosto”. Il libro comprende saggi su dieci registi, suddivisi tra “precursori” (Bunuel, Dreyer, Bresson), “teosofi” (Olmi, Godard, Chahine) e “predicatori” (Bellocchio, Greenaway, Kieslowski, von Trier). Tra i film analizzati, La via lattea, Il diavolo probabilmente, Centochiodi, Je vous salue Marie, Il destino, L’ora di religione, Il decalogo, Baby of Macon, Le onde del destino. Con una conversazione con Ermanno Olmi. E con una considerazione preliminare dell’autore: “i cineasti che ci accompagnano in questo percorso, nel momento in cui elaborano una risposta, generano altre domande. Esattamente il contrario di quanto fanno i dogmi”.
I mostri al cinerma
di Eric Dufour (Gremese, Roma 2011, pp.128, 18.50 euro)
Chi è veramente un mostro, e che cos’è la mostruosità al cinema? Nella nuova collana “…al cinema”, esce questo libro in forma di album per raccontare la mostruosità nei film attraverso un testo sintetico e molte immagini. Attenzione, però, perché se il testo è scarno, il suo autore è un professore di filosofia dell’università di Grenoble che ha già scritto ottimi studi sull’horror (“Le cinéma d’horreur et ses figures”, 2006) ed è un esperto dell’argomento capace di validissima divulgazione. Qui premette di non aver voluto redigere un semplice catalogo di deformità e patologie mediche, ma “delineare una tipologia dei dispositivi che permettono di dare vita a un essere orrorifico, dunque dei modi di produrre la mostruosità al cinema”: categoria che non comprende solo i film di mostri, per interrogarci invece “sul mostro che alberga in ognuno di noi e sulle nostre angosce più profonde”. Tanti brevi capitoli sui vari aspetti del tema, a partire dal mostro come alieno, per passare all’”altro” che sta all’interno della stessa natura umana, o ragionare sulla mostruosità come questione di sguardo e di punto di vista adottato. Con sezioni sui mutanti, sul passaggio dal meccanico al digitale, sul trucco e la maschera, ma anche su locandine e trailer che ci introducono alla mostruosità. Con molte illustrazioni, da Freaks a Toxic Avenger, passando attraverso capolavori famosi e Z-movies di culto.
I cavalieri del West
di Andrea Bosco e Domenico Rizzi (Le Mani, Recco 2011, pp.326, 22 euro)
“Quando la realtà diventa leggenda, vince la leggenda”, dice la famosa battuta di L’uomo che uccise Liberty Valance, sintetizzando le annose diatribe sul rapporto tra la realtà del West e la leggenda del western. Il libro di Andrea Bosco e Domenico Rizzi cerca invece di ritessere i rapporti tra la verità storica di alcuni celebri personaggi del West e il modo in cui sono stati reinventati sullo schermo, per la sicura gioia di tutti gli appassionati di western. Sfilano così le “ombre rosse” di Cavallo Pazzo, Toro Seduto, Cochise e Geronimo, poi quelle di David Crockett, Buffalo Bill, Custer, quindi le figure “a cavallo del mito” di Wild Bill Hickok, Calamity Jane e Wyatt Earp, per concludere con i “senza legge” della banda James-Younger, Billy the Kid o le donne del Branco Selvaggio. Per ogni personaggio, un’ampia storica seguita dalla descrizione delle sue apparizioni al cinema. In totale, trecento fitte pagine non a caso edite da un grandissimo appassionato di western e di West come Francangelo Scapolla, titolare della casa editrice Le Mani che proprio con un volume sul western aveva cominciato quasi vent’anni fa la sua avventura editoriale. Prefazione di Maurizio Porro.
Il cinema spagnolo
di Antxon Salvador (Gremese, Roma 2011, pp.279, 39 euro)
La storia del cinema di lingua spagnola attraverso le schede di 250 film, a partire da La donna del porto (1933) per arrivare a Biutiful di Inarritu, Il segreto dei suoi occhi di Campanella o al cartoon Chico e Rita (2011). In mezzo, ci sono i capolavori di Bunuel e di Almodovar, opere di Berlanga, Fernandez, Saura, Aménabar, Jodorowsky e di tanti altri registi noti anche in Italia, ma pure film inediti sul nostro mercato e comunque sconosciuti da noi, in modo da poter comporre un percorso storico per molti versi rivelatore. Tra i titoli schedati figura anche El cochecito, realizzato da Marco Ferreri prima di imporsi come regista anche in Italia. Le schede sono sintetiche e accurate, il volume è riccamente illustrato: la particolarità da ricordare è che non si tratta di una storia del cinema spagnolo, ma di “lingua spagnola”, e che quindi all’interno della cronologia vengono mescolati film prodotti in Spagna, a Cuba, in Messico, in Argentina e nei vari paesi dell’America Latina, secondo un’idea di un unico “paesaggio culturale proteso da un lato all’altro dell’Atlantico”. Curiosità: il regista più rappresentato è Bunuel (6 film), seguito da Almodovar e Berlanga (5), da Carlos Saura e dal cubano Tomas Gutierrez Alea (4).
CineCritica (n.63, luglio-settembre 2011, pp.114, 6 euro)
Ettore Scola è il regista cui viene dedicato l’abituale “primo piano” della rivista del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani: con una lunga intervista a cura di Piero Spila e Bruno Torri, seguita da saggi di Aldo Viganò e Paolo D’Agostini. Altri argomenti del numero: il cinema basco, Pratolini e il cinema, il compositore Henry Mancini, Robert Altman, Kathryn Bigelow, Robert Bresson, /Il colore del vento/ di Bruno Bigoni.