Incontro col regista de Le nevi del Kilimangiaro, bel film ambientato nella Marsiglia operaia.
Michel (Jean-Pierre Darroussin) lavora come operaio nei pressi del porto di Marsiglia, ma a causa della crisi viene licenziato. La sua vita proseguirebbe ugualmente serena, se non irrompesse un nuovo trauma: una rapina in casa ad opera, come scoprirà presto, di uno dei giovani operai licenziati insieme a lui. A quel punto Michel ha una reazione rabbiosa, che però lascia ben presto il posto a un senso di dolorosa inadeguatezza quando riflette sui motivi per cui il giovane ha compiuto quel gesto criminale.
Ispirato al romanzo Les pauvres gens di Victor Hugo (il titolo Le nevi del Kilimangiaro deriva dalla canzone di Pascal Danel che caratterizza la colonna sonora), l’ultimo film di Robert Guédiguian potrebbe ricordare i drammi sociali “alla Ken Loach”, ma è raccontato con una personalissima volontà di reinventare il cinema politico con i mezzi della favola, superando le attuali contraddizioni del proletariato, incapace oggi di “farsi classe”. Il film è stato presentato in anteprima al cinema Sivori di Genova dal regista e dalla moglie Ariane Ascaride, attrice protagonista di quasi tutte le sue pellicole.
Come le è venuta l’idea di utilizzare Les pauvres gens come punto di partenza del film?
Nel 2005 mi capitò di rileggere il poema e la sua fine, ovvero il momento in cui il povero pescatore decide di adottare i figli della sua vicina morta dicendo «avevamo cinque figli, ora saranno sette», e poi scopre che la moglie, avendo preso per prima l’iniziativa, ha già portato i bambini a casa; è assolutamente struggente. Tanta bontà, tanta generosità è esemplare. E poi, c’è questa convergenza, quel gesto d’amore unisce i due personaggi. Ho subito pensato che sarebbe stata una fine stupenda per un film, e dovevo solo trovare un percorso contemporaneo per giungere a questo finale.
Dopo un thriller (Lady Jane) e un film storico (L’armée du Crime) questo film è un ritorno al suo cinema degli esordi?
Era ovviamente escluso che raccontassi la storia di un pescatore bretone dell’Ottocento. L’idea era quella di fare un film contemporaneo, a Marsiglia, con la truppa di persone con cui lavoro abitualmente: Jean-Pierre, Ariane e Gérard Meylan (nda: sia Guédiguian che la Ascaride, molto disponibili e alla mano, parlano correntemente l’italiano e amano chiamare la loro troupe “truppa”). E, come era già successo con L’ultima estate e con Marius e Jeannette, volevo fare il punto della situazione, nel quartiere dove sono nato, l’Estaque, e con la “povera gente” che vive lì; il film vuole essere la descrizione della “povera gente” di oggi.
In questo film la vita normale di due persone perbene viene sconvolta da un evento violento; la reazione dei due protagonisti però è molto diversa, mettiamo, da quella che si vede in pellicole con una struttura simile, come Funny Games o Festen. Questo dipende dalla classe sociale di Michel e Marie-Claire?
Sì. Anche se da trent’anni a questa parte le classi sociali sono più confuse. Ci sono adesso molti più proletari che in passato, ma non sanno di esserlo e non si riuniscono insieme per difendere i loro interessi. C’è una grande “atomizzazione”, frammentazione: ognuno è solo, si sta sempre meno con gli altri. E’ anche per questo che i figli di Michel e Marie-Claire non capiscono le scelte dei genitori. Pur essendo più giovani, non vogliono mettere a repentaglio la loro vita tranquilla, diciamo che hanno perso la “capacità di indignarsi”, perché non hanno una coscienza di classe che li supporti.
Il film racconta anche lo scontro tra due generazioni.
Per la prima volta nella storia i nostri figli rischiano di vivere peggio di noi. Tutte le conquiste sociali sono state ottenute attraverso dure lotte, ma oggi sono state messe nuovamente in discussione. È arrivato il momento di passare all’attacco, e di proporre delle alternative. Spero in una riconciliazione tra la nostra e la nuova generazione. Il filo si è rotto, ma dobbiamo ricucirlo.
A questo proposito è significativa la domanda che alla fine Michel si pone: che cosa avrebbe pensato la persona che eravamo a vent’anni di quello che siamo diventati oggi?
E’ una domanda che io, Ariane e gli altri della truppa ci siamo sempre posti. Io sono sempre andato avanti chiedendomi cosa avrei pensato, quando avevo vent’anni, della persona che sono diventato. E a vent’anni ero, come potete immaginare, un ragazzo eccessivo, ribelle. Direi persino che mi sono sempre sforzato di comportarmi in un modo che potesse piacere al ragazzo di allora, come se quel ventenne di un tempo fosse per me una specie di grillo parlante, la voce della mia coscienza.
(di Francesca Savino)