Tratto da Farragut North, la pièce teatrale di Beau Willimon ispirata alla campagna presidenziale di Howard Dean, candidato democratico nel 2004, Le idi di marzo, è – nelle parole di Clooney – un “thriller morale più che un pamphlet politico”. La quarta regia dell’attore americano nasce come un “backstage” efficace e ben documentato sul balletto di finzioni, tradimenti ed espedienti machiavellici cui si riduce l’arte della politica “sul campo”. Ma non è da lì che trae la sua forza drammaturgica primaria. Il cinema ha illustrato più volte come le violazioni della legge e le manipolazioni del processo democratico siano considerati danni collaterali inevitabili per il successo di una campagna presidenziale americana.
Dietro ogni candidato si agitano stormi di loschi individui in giacca e cravatta – consiglieri, spin doctor, esperti di comunicazione, lobbisti – ai quali tutto è consentito pur di raggiungere la meta e il cui unico obiettivo è svelare il più tardi possibile le proprie diaboliche strategie. Niente di nuovo su questo fronte, documentare la regia occulta della politica, tanto più che Le idi di marzo riposa su una struttura narrativa lineare e una sceneggiatura sobria, solennemente classica. La sorpresa arriva invece dall’idea astratta che è al centro del film, sviluppata in modo costante e progressivo, il dilemma morale che inchioda l’attenzione su un personaggio apparentemente secondario, interpretato da Ryan Gosling, e concerne la “verifica” della sua lealtà. Il motore del nostro interesse alla fine è scoprire se la dedizione alla causa, cieca e senza compromessi, condurrà il giovane addetto stampa all’idiozia e alla perdita di sé o se invece Stephen Meyer sarà ancora in grado di proteggere i propri beni superiori, l’integrità e l’interiorità. È tutta qui, in questa linea di frattura dell’etica, la questione del potere secondo Clooney.
La prima cosa che impressiona nel film è l’incredibile “effetto verità”, la capacità di restituire l’entourage del governatore Morris con estrema accuratezza fin nel minimo dettaglio.
Ci sono diversi elementi importanti che hanno contribuito al realismo del film. ll testo teatrale di Willimon, ispirato alle sue esperienze nello staff di Dean durante la campagna del 2004 in Iowa, ci ha regalato battute, personaggi e dinamiche molto autentiche. Poi la decisione di girare molte scene in Ohio, a Cincinnati e nel nord del Kentucky – non lontano da Lexington, il luogo dove sono nato: conoscere così precisamente i luoghi e le persone mi ha aiutato a costruire un’atmosfera credibile attorno ai personaggi principali. Anche le consulenze degli esperti di cui ci siamo avvalsi sono state fondamentali. In particolare vorrei citare Stuart Stevens che ha lavorato come stratega per numerose campagne repubblicane ed è un consigliere politico molto ascoltato dai media. Il suo aiuto è stato preziosissimo: gli abbiamo sottoposto domande su come si sarebbe comportato in questa o quella situazione e le sue risposte ci hanno sempre spiazzato per coerenza e decisione. Pensa davvero quello che dice e potrebbe lavorare per chiunque con la stessa risolutezza. È stato consigliere di George Bush ma, nelle stesse primarie, avrebbe potuto essere nella squadra di John McCain e adoperarsi con la stessa energia. Non è mai stato schiavo di un’ideologia personale, ha sempre scelto una missione e l’ha perseguita con tutto se stesso. Ultimi ma non ultimi, i pezzi politici che mio padre, giornalista, ha scritto negli anni settanta, sono stati un tesoro inestimabile.
Lei ha dichiarato che il film ha avuto una lunga gestazione perché, pensato nel 2004, è stato poi congelato dall’elezione di Obama. Quando ha capito che il progetto poteva essere di nuovo attuale?
Quando i tempi sono diventati di nuovo cinici. Abbiamo lavorato a lungo nel 2008 sulla sceneggiatura, ma l’elezione di Obama ha cambiato tutto. L’esplosione della speranza e della gioia aveva reso il film non così necessario come ci era sembrato pochi mesi prima. È la realtà che, nostro malgrado, lo ha reso di nuovo attuale ed è successo soltanto un anno dopo. Spero che, al di là della storia, il film spinga qualcuno a farsi delle domande: “È necessario che i candidati facciano la loro campagna con un tale dispendio di mezzi per la comunicazione, la pubblicità e i colpi bassi? È veramente quello che vogliamo dai nostri leader?”. L’ironia e il cinismo che serpeggiano nel film vorrebbero sollecitare interrogativi di questo tipo.
La infastidiscono i frequenti confronti con Robert Redford o Warren Beatty, altri attori liberal che hanno lasciato trasparire a chiare lettere l’impegno nei loro film da registi?
Perché dovrebbero? Sono due attori e registi eccezionali. I confronti però sono sempre un po’ semplicistici. Scorriamo la categoria degli attori e registi impegnati? Redford, Beatty, Penn, Clooney… giusto, ma a cosa serve? Se invece parliamo d’influenze cinematografiche particolari, non credo ci sia alcuna parentela. Per Le idi di marzo, le uniche fonti che abbiamo consultato sono dei documentari. Durante le riprese ho incoraggiato gli attori e la crew a guardare The War Room, sulla campagna presidenziale di Bill Clinton nel 1992 e Journeys With George (su quella di George W. Bush nel 2000). E personalmente sono molto debitore nei confronti di Primary, un bellissimo documentario del 1960 di Leacock e Maysles sul futuro presidente Kennedy e il senatore Hubert Humphrey, durante le primarie in Wisconsin.
Lei preferisce definire il film un “racconto morale” piuttosto che un film sulla politica. Ce ne spieghi le ragioni.
La forza del film credo sia principalmente nella sua dimensione umana. Fin dal titolo abbiamo voluto dare un fondo shakespeariano ai personaggi, una statura universale e non necessariamente legata all’attualità. Il mio personaggio non ha niente a che vedere con John Edwards, per esempio, come qualcuno ha detto. Le idi di marzo non è uno strumento di propaganda né un film sulla politica, e poco importa la fede ideologica del personaggio principale, è il mondo con cui si confronta che spinge avanti la storia. L’idealismo e la fiducia nell’uomo di Meyers vengono messi in crisi dalle manipolazioni politiche e dai giochi di potere cui deve sottostare. Questo è il conflitto che mi interessava raccontare.
(a cura di Roberto Pisoni)
Si ringrazia Alessandra Venezia per la collaborazione.